Tra Donald Trump e Jerome Powell non è mai stato amore. E il paradosso è che fu proprio il primo a nominare il secondo come governatore della Federal Reserve nel 2018. Era al suo primo mandato e pochi mesi più tardi avrebbe polemizzato duramente con “Jay” sui social per la sua politica sui tassi di interesse. Al tempo stava continuando ad alzarli, proseguendo il lavoro di Janet Yellen. Oggi, è accusato di non tagliarli. A gennaio, la FED ha deciso di sospendere l’allentamento monetario per reagire alla persistente inflazione sopra il target del 2%.
Trump vuole licenziare Powell
Sempre sui social, Trump ha attaccato a testa bassa Powell nei giorni scorsi.
E’ arrivato a invocarne il licenziamento, sostenendo che se solo volesse, sarebbe “fuori molto presto”. La legge assegna alla Casa Bianca il potere di nomina del governatore, così come di revoca “per giusta causa”. E la divergenza sulla politica monetaria non rientra in questa casistica. In altre parole, il presidente potrebbe rimuovere il governatore solo se si rivelasse manifestamente incapace o violasse qualche codice di condotta sul piano etico.
Indipendenza valore per banca centrale
L’indipendenza della banca centrale dal potere politico non è un capriccio. Chi si occupa per mandato di preservare la stabilità dei prezzi, non deve ricevere pressioni in alcun senso da parte di governo e parlamento. Rischia altrimenti di fare l’interesse di questi ultimi, che può benissimo non coincidere con quello dei cittadini. Lo abbiamo visto in questi anni in Paesi come la Turchia, dove l’asservimento della banca centrale alla politica ha portato all’esplosione dell’inflazione e al collasso del cambio.
Perché Trump vuole licenziare Powell? Come detto, vuole che continui a tagliare i tassi. Questi restano fissati al 4,25-4,50%, poiché l’inflazione americana non vuole sentirne di scendere al 2% come da obiettivo. A marzo era al 2,4% annuale, mentre la disoccupazione è appena sopra il 4%, segnalando la robustezza del mercato del lavoro. In pratica, non ci sarebbero ragioni per tagliare. Al contrario, i dazi annunciati dall’amministrazione rischiano di alzare i prezzi al consumo nei prossimi mesi, rendendo le importazioni dall’estero più costose. E il dollaro ha perso il 10% dai massimi di gennaio contro le altre valute mondiali. Anche questo fattore non depone a favore della discesa dell’inflazione.
Trump rende più difficile il taglio dei tassi
Dunque, paradossalmente sarebbe proprio Trump a rendere più difficile per Powell di continuare a tagliare i tassi. La rabbia del tycoon è esplosa quando il governatore ha prospettato tassi fermi o persino in risalita nel caso si rendesse necessario. Lo scontro sta avvenendo nel bel mezzo della caduta di Wall Street, con i capitali in fuga anche dai Treasuries, in cerca di asset più sicuri. Poiché è lo stesso presidente a chiarire di volere un dollaro più debole, gli investitori reagiscono di conseguenza.
Perché Trump vuole tassi più bassi? In primis, proprio per indebolire il dollaro. I capitali si dirigono solitamente dove i rendimenti sono maggiori, apprezzandone il tasso di cambio.
Secondariamente, perché può così rifinanziare l’immenso debito pubblico in scadenza a costi più bassi. Terzo, perché i mutui e i prestiti risulterebbero più a buon mercato, riducendo le rate per le famiglie e stimolando gli investimenti delle imprese. A beneficiarne sarebbe l’economia americana, nelle intenzioni di Trump.
Gli errori della FED
Il problema sta nel fatto che non depone a favore della credibilità verso il dollaro e il sistema finanziario americano nel suo complesso che sia il governo a imporre la politica monetaria alla banca centrale. Powell sta difendendo la reputazione della FED e gli attacchi della Casa Bianca rendono sempre più complicato il suo lavoro. Ciò detto, di errori ne ha commessi pure lui. Iniziò a tagliare i tassi nel settembre scorso e dello 0,50%, cioè in piena campagna elettorale e senza che dai dati macroeconomici vi fossero sufficienti elementi per giustificare una mossa così forte e prematura. Tant’è che appena pochi mesi più tardi si vedeva costretto al passo indietro.
Il mercato stesso non aveva dato ragione a Powell, come segnala la drastica risalita dei rendimenti americani dall’avvio del taglio dei tassi. Prima che Trump tornasse alla Casa Bianca, il Treasury a 10 anni offriva il 4,80% contro il 3,62% offerto nel giorno del primo taglio FED. In quel lasso di tempo, i tassi erano stati abbassati di 100 punti base o 1%. In poche parole, il mercato era andato in direzione opposta a quella della banca centrale. Un segnale non certo di fiducia verso il suo operato. La FED non è mai stata realmente insensibile alle sirene politiche; solo che ha sempre cercato di salvare le forme, colloquiando con la Casa Bianca dietro le quinte.
Powell in carica fino a fine mandato?
A meno di clamorose dimissioni, Powell resterà probabilmente in carica fino alla fine del mancato, in scadenza nel maggio del 2026. E per Trump sarebbe un bene. Se lo rimpiazzasse oggi con un governatore percepito “amichevole” e prono ai suoi desideri, si ripeterebbe quasi certamente quanto avvenuto nei mesi passati: la FED taglierebbe i tassi e i rendimenti sovrani, anziché ripiegare, tornerebbero a salire.
Il presidente otterrebbe il risultato opposto a quello desiderato, cioè un aumento dei costi di emissione del debito. Un danno per economia e conti pubblici. Per non parlare delle aspettative d’inflazione, che surriscaldandosi minaccerebbero la stabilità finanziaria e la tenuta del dollaro.
Per avere il taglio dei tassi, Trump dovrà rinunciare a gran parte dei dazi e mostrarsi intento a ridurre il deficit federale. Dopotutto, si tratterebbe di aspettare qualche mese. Il mercato sconta tassi di un punto percentuale più bassi entro fine anno. Powell tornerebbe a tagliarli sin dal board di giugno, un mese e mezzo dopo quanto vorrebbe il presidente. Né questi può immaginare che possa ridurli in misura drastica, rischiando di destabilizzare mercati e prezzi. L’impazienza giocherebbe brutti scherzi.