Il Venezuela di Nicolas Maduro non è più isolato nel Sud America. La vittoria di Lula in Brasile gli consente di ampliare le alleanze quando sembravano essere perdute. Anche Colombia, Cile e Argentina sono andati a sinistra negli ultimi anni. Lo stesso il Perù fino alla deposizione di Pedro Castillo di poche settimane fa. Fatto sta che Caracas non è più uno stato paria, almeno non agli occhi del resto dell’America Latina. E la guerra tra Russia e Ucraina gli ha aperto scenari più favorevoli nelle relazioni con gli stessi Stati Uniti.

La Casa Bianca ha perso ogni speranza di rivitalizzare l’accordo sul nucleare con l’Iran dopo le repressioni violente ordite dalla Repubblica degli ayatollah ai danni di migliaia di manifestanti. Con il petrolio russo sotto embargo, quello esportato da Teheran avrebbe dovuto rimpiazzarlo per il mercato europeo. Sfumata tale ipotesi, l’amministrazione Biden torna a guardare a Caracas.

Il petrolio del Venezuela è sotto embargo americano sin dal 2018. Tuttavia, da mesi gli Stati Uniti lanciano segnali di distensione. A ConocoPhillips ha concesso di estrarre greggio nel paese andino per recuperare almeno parte dei 10 miliardi di dollari avanzati a seguito dell’esproprio senza indennizzo del 2007. Chevron ha ottenuto, invece, una licenza di sei mesi per importare greggio venezuelano. Le importazioni degli Stati Uniti sono quasi azzerate a seguito dell’embargo. In precedenza, arrivarono a superare gli 800.000 barili al giorno.

E le esportazioni petrolifere dell’Iran a dicembre sarebbero salite a una media giornaliera di 1,137 milioni di barili, principalmente grazie ad acquirenti come Cina e Venezuela. Quest’ultimo acquista da anni greggio iraniano leggero da mescolare alle sue estrazioni pesanti, cioè ad alto contenuto di zolfo, al fine di renderlo esportabile. Questi dati suggerirebbero, quindi, che il Venezuela starebbe puntando nuovamente sulle esportazioni di petrolio per uscire dalla crisi. Le estrazioni, tuttavia, restano bassissime, tra 700.000 e 800.000 barili al giorno.

Le esportazioni nel 2022 sarebbero persino scese del 2,5% a una media di 616.500 barili al giorno.

Apice crisi Venezuela alle spalle

Per quest’anno, però, il governo di Maduro prevede di finanziare il 63% del budget dello stato grazie ai proventi petroliferi. Questi sono attesi in rialzo dagli 8,2 miliardi del 2022 a 9,34 miliardi. Numeri non eclatanti, ma che segnano una cesura con il continuo tonfo di questi anni. Tra il 2014 e il 2020, il PIL venezuelano è crollato del 75%. Ha ripreso a salire nel 2021 e nel 2022 avrebbe registrato una crescita del 6%, attesa in accelerazione al 6,5% quest’anno. Le esportazioni di petrolio, però, restano a un terzo dei livelli del 2016.

Che nel paese vi sia un maggiore afflusso di dollari, lo dimostrerebbe anche il crollo meno veloce del cambio sul mercato nero. L’inflazione è scesa ad ottobre al 156%, poca roba rispetto al 350.000% raggiunto nel 2019. L’iperinflazione è alle spalle, ma i prezzi al consumo restano instabili e il potere di acquisto non fa che diminuire. Al di là delle intenzioni degli Stati Uniti, senza massicci investimenti stranieri il Venezuela non disporrebbe dei capitali necessari per riattivare la propria industria petrolifera. Il calo delle esportazioni dell’anno scorso lo si deve proprio a ciò. Ma l’atteggiamento meno ostile di Washington fa sperare a Maduro di riuscire, se non a farsi annullare l’embargo, a neutralizzarne tacitamente gli aspetti più aspri.

Gli Stati Uniti vivono un dilemma complicato. Accettare che il Venezuela torni sul mercato del petrolio per sventare una crisi globale dell’energia equivarrebbe a legittimare Maduro. Ma avrebbe senso farlo per mettere nell’angolo Vladimir Putin, quando i metodi repressivi e l’ideologia di Caracas sono simili a quelli di Mosca? Si tratterebbe di rimpiazzare un dittatore con un altro. Con il rischio di ritrovarselo contro in un futuro non lontano.

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