Era considerata la “Svizzera del Medio Oriente” per il relativo benessere che la popolazione si era guadagnato dopo la sanguinosa guerra civile tra il 1975 e il 1990. Qualche tempo fa, la Banca Mondiale definiva la crisi economica del Libano “una delle tre peggiori della storia”. A Beirut i tempi d’oro sono finiti e i suoi 6 milioni e mezzo di abitanti, compreso il milione di profughi, vive da qualche anno un incubo senza fine. A partire dall’1 febbraio, la Banque du Liban ha attuato la svalutazione della lira del 90%.

Il tasso di cambio contro il dollaro è passato da 1.500 a 15.000. È stata la fine di un sistema di cambio fisso durato venticinque anni, sebbene ormai da qualche anno non fosse nei fatti più in uso. Per questa ragione non è stato lo shock che crediamo. La popolazione fa ricorso da tempo totalmente al mercato nero per scambiare valuta locale contro quella straniera. E lì, ieri il tasso di cambio precipitava ai nuovi minimi storici: 80.000 lire per un dollaro!

Svalutazione lira libanese

Svalutazione lira e default Libano

In un solo mese, segna un crollo del 40% e nell’ultimo anno del 75%. Il confronto con l’autunno del 2019 è raccapricciante: -98%! Tutto ha inizio proprio in quei mesi. Decine di migliaia di cittadini, perlopiù giovani, scendono in piazza per protestare contro il governo di Saad Hariri, accusato di corruzione. Il premier si dimette, ma essendo praticamente l’unico referente credibile per mercati e cancellerie straniere, i capitali fuggono e l’economia inizia a collassare. Pochi mesi dopo, il Libano dichiara ufficialmente default sui suoi bond in valuta estera. Complice la pandemia, il PIL precipita dei due terzi rispetto ai livelli del 2018.

L’anno scorso, le dimensioni dell’economia libanese si sarebbero ridotte a 23 miliardi di dollari contro i 55 di quattro anni prima. Nel frattempo, il debito pubblico è salito a 102,7 miliardi al 30 settembre scorso.

Tuttavia, l’entità scende drasticamente calcolando lo stock ai nuovi tassi di cambio. Resta il fatto che nel Libano il debito pubblico quasi doppia il PIL. E passando dalla macroeconomia all’economia spicciola, i prezzi non fanno che galoppare per i consumatori. L’inflazione nel 2022 è stata mediamente del 186% e a dicembre risultava scesa al 122%. Gli stipendi non bastano neppure per comprare lo stretto necessario. Pensate che il salario minimo di 675.000 lire al nuovo tasso di cambio vale appena 45 dollari, ma ai tassi di mercato non arriva a 8,50 dollari.

Inflazione Libano

Politica paralizzata da veti incrociati

Un salario medio di quasi 2 milioni e 300 mila lire a stento supera i 150 euro con il cambio aggiornato, collassando a meno di 30 al mercato nero. Dall’economia non arrivano segnali incoraggianti, malgrado i 3 miliardi di dollari ricevuti in prestito nell’aprile scorso dal Fondo Monetario Internazionali su quattro anni. Soldi, che arriveranno in cambio di riforme. La bilancia commerciale è andata in deficit per 15,5 miliardi, che equivale ai due terzi del PIL. In una condizione così disperata, la politica non trova di meglio che litigare. Il Parlamento attende da mesi di eleggere il nuovo presidente, la cui carica risulta vacante da ottobre. Con calma: i deputati impiegarono due anni e mezzo per eleggere Michel Aoun nell’ottobre del 2016. La Costituzione non prevede la proroga del mandato neppure per il disbrigo degli affari correnti.

Il Libano è questa roba qui: economia collassata, esasperazione di massa e irresponsabilità politica senza alcun contegno. All’estero nessuno si fida delle istituzioni locali, oggetto di lotte intestine tra partiti di ispirazione mussulmana sunnita, sciita e minoranza cristiana. L’Iran ha trattato il paese come un suo protettorato attraverso le milizie di Hezbollah. Adesso che Beirut è affondata, Teheran non è in grado di aiutarla, travolta anch’essa da una crisi devastante. Gli unici che potrebbero muovere un dito sarebbero i sauditi, ma non lo fanno per il timore che i loro quattrini vadano a finanziare governi messi sotto scacco dagli sciiti filo-iraniani.

E così i libanesi sono entrati nel loro quinto anno consecutivo di crisi senza la prospettiva di uscirne presto.

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