Criteri più restrittivi per accedere ad Opzione Donna, introduzione di Quota 103 con almeno 41 anni di contributi e taglio della rivalutazione degli assegni per gli importi superiori ai 2.100 euro lordi mensili. Sono, in estrema sintesi, queste le misure varate dal governo Meloni e inserite nella manovra finanziaria sulle pensioni. Ma, insieme ai sindacati, i ministri concordano sulla necessità di rafforzare la previdenza integrativa, grande fragilità del sistema italiano. Per questo motivo, il governo adocchia una riforma dei fondi pensione. Sarà probabilmente studiata nel corso del 2023, con l’obiettivo di giungere al 2024 con un impianto strutturalmente nuovo della materia.

Al termine del 2021, risultavano avere aderito ai fondi pensione 8,8 milioni di lavoratori, vale a dire poco più di un terzo del totale. I versamenti complessivi superavano i 213 miliardi di euro. Poco per un Paese che manderà, nei prossimi decenni, i lavoratori in quiescenza con il metodo contributivo. Molti assegni saranno inadeguati per la pura sopravvivenza. E, a differenza di oggi, non ci sarà più l’integrazione al minimo. A meno che non intervenga una riforma in tal senso.

La riforma dei fondi pensione riguarderebbe essenzialmente l’imposizione fiscale. Come funziona ad oggi? Sui rendimenti maturati in fase di accumulo lo stato trattiene il 20%, aliquota di favore rispetto al 26% imposto sulla generalità delle rendite finanziarie. La parte del rendimento maturata grazie ai titoli di stato resta tassata al 12,50%. Inoltre, i premi versati da lavoratore e impresa sono deducibili dal reddito fino all’importo di 5.164,57 euro all’anno.

Fondi pensione, riforma tassazione rendita/capitale

Infine, la rendita maturata in fase di pensionamento è soggetta a una tassazione pari al 15%. Da questa aliquota è sottratto lo 0,3% per ogni anno di versamento effettuato sopra 15 anni fino all’aliquota minima del 9%. Facendo un semplice calcolo, si ottiene che il beneficiario verserebbe allo stato il 9% nel caso di 35 anni di versamenti.

È su quest’ultimo punto che il governo Meloni sembra intenzionato ad intervenire. Si vocifera dell’ipotesi di alleggerire il carico fiscale del 2-2,5%. In altre parole, si partirebbe dal 12,5-13% e si scenderebbe fino all’aliquota minima del 6,5-7%. Sarebbe un modo per garantire benefici maggiori agli aderenti ai fondi pensione. Non ci sono per il momento novità sulla tassazione dei rendimenti in fase di accumulo. E forse non sarebbe male ridurre il carico fiscale in questa fase, al fine di consentire al lavoratore di maturare un montante più alto.

Il problema, tuttavia, resta a monte. Le adesioni non stanno riguardando quella porzione della popolazione lavorativa che più avrà bisogno della previdenza integrativa, ossia i più giovani. E finché i contributi INPS incideranno per ben un terzo dello stipendio lordo, a sua volta relativamente basso in Italia, non ci sarà trippa per gatti. Ma, come un cane che si morde la coda, non sembra possibile tagliare in misura eclatante la contribuzione obbligatoria senza minacciare la sostenibilità dei conti INPS. Si rischia di intrappolare nella precarietà anche durante la vecchiaia chi già la vive durante la propria vita lavorativa.

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