Avanti un altro. E’ questo il titolo di copertina che i quotidiani britannici dovrebbero pubblicare per descrivere il caos politico nel Regno Unito. Con le dimissioni di ieri di Liz Truss, è finito il governo più breve della storia britannica. E’ rimasto in carica appena 45 giorni. Roba che neppure nella stagione dei governi “balneari” italiani nella Prima Repubblica. E proprio all’Italia si rifanno nelle ultime settimane alcune vignette dei quotidiani nazionali. L’Economist aveva titolato “Welcome to Britaly” per ironizzare sul fatto che il Regno Unito somigli sempre più all’Italia.

Sul piano politico, certo. Peccato per loro che non abbiano il nostro cibo, la nostra arte, la nostra storia e la nostra moda. Insomma, ci stanno scopiazzando negli aspetti più deteriori.

Verso settimo governo in sei anni

Entro una settimana si concluderà il processo delle primarie interne ai Tories, che porterà alla nomina del prossimo primo ministro. Sarà probabilmente Rushi Sunak, ex cancelliere dello Scacchiere sotto Boris Johnson e che per poco aveva perso contro Truss in agosto. Sarà il quinto primo ministro in sei anni. Era il 24 giugno del 2016, quando l’allora premier David Cameron si dimise a seguito della imprevista e clamorosa sconfitta al referendum sulla Brexit.

Dopo Cameron arrivò Theresa May, che un anno dopo vinceva le elezioni generali riconvocate per legittimarsi a Downing Street. Tuttavia, perdeva la maggioranza assoluta dei seggi. La sua permanenza al governo non fu lunga, dato che nel settembre del 2019 fu spodestata da Boris Johnson, suo ministro degli Esteri. L’ex sindaco di Londra vinceva nettamente le nuove elezioni anticipate di dicembre. Sembrava destinato a un lungo regno, ma le sue numerose grane con la gestione della pandemia gli alienavano le simpatie di gran parte dell’elettorato e degli stessi deputati del partito.

Nell’estate scorsa, si dimetteva per lasciare il posto a un successore.

Truss s’imponeva promettendo il ritorno ai fasti del “thatcherismo”. In poche settimane, è riuscita a passare dal taglio delle tasse in deficit all’aumento delle tasse per placare la speculazione finanziaria ai danni di sterlina e titoli di stato. Ed è qui che va inquadrata la crisi politica britannica dopo la Brexit. Fino al 2016, la gestione delle finanze statali era stata improntata all’austerità da parte dei due governi guidati da Cameron. I Tories, tuttavia, compresero che buona parte del consenso per l’uscita dall’Unione Europea era stato un atto di ribellione degli elettori contro l’austerità fiscale.

Scarsa attenzione al deficit dopo Brexit

Le regole di bilancio non sono più state dopo Cameron la principale preoccupazione dei premier che lo hanno succeduto. E questo, malgrado il debito pubblico sia ormai salito al 100% del PIL. Tra negoziato duro con Bruxelles sul dopo Brexit e volontà di ridisegnare il futuro del Regno Unito all’insegna della grandezza del tempo che fu, ci è scappata la mano sulla spesa pubblica in deficit. Qualcuno a Londra non aveva capito fino al mese di settembre che non siamo più ai tempi gloriosi dell’impero britannico, che la sterlina non è da un secolo valuta di riserva mondiale e che l’economia nazionale soggiace alle stesse regole che tutte le altre economie mondiali devono seguire per non uscire fuori rotta.

Invece, Truss sbagliava due volte il mese scorso: la prima, quando definì “thatcherismo” il taglio delle tasse in deficit. Se l’avesse sentita la Lady di Ferro la avrebbe scaraventata a terra. L’ordine fiscale fu una pietra miliare negli anni Ottanta; la seconda, quando pensò bene di imitare l’America di Trump-Biden. C’è una differenza vistosa con Washington: il Tesoro americano s’indebita in dollari, valuta di riserva mondiale acquistata dal resto del pianeta per regolare gli scambi commerciali e finanziari.

E’ quel “privilegio esorbitante” di cui parlò oltre mezzo secolo fa Valery Giscard d’Estaing, che sarebbe diventato presidente della Francia. Esso consiste nella possibilità di spendere tanto senza pagare mai alti tassi d’interesse.

Colpo ai sogni di gloria

Questo caos politico assesta un colpo al cuore del Regno Unito. Ne svilisce le potenzialità “neo-imperiali” ora che la Brexit è realtà e, soprattutto, riporta i sudditi di Sua Maestà con i piedi per terra. Restano una grande nazione con una grande tradizione liberale in economia e nella cultura, ma non presentano quei caratteri di presunta eccezionalità per essere immuni ai fondamentali macro. La reputazione di Londra sui mercati nelle ultime settimane è stata intaccata. Nessun si aspettava tanta incompetenza dal governo britannico. Spetterà al successore di Truss fare in modo che non si tratti di un processo irreparabile. Altrimenti, l’opera di italianizzazione del Regno Unito sarebbe completata. E sarebbe un enorme disastro.

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