L’Italia ha perso l’occasione storica di ridurre le distanze con il resto d’Europa, sprecando l’ultimo decennio. I dati Istat ci dicono che nel primo trimestre, il pil è diminuito del 4,7% rispetto al trimestre precedente e del 4,8% su base annua. In termini reali, torniamo ai livelli di ricchezza di inizio millennio, circa 10 punti percentuali in meno rispetto al 2008. In effetti, il calo provocato dall’emergenza Coronavirus si aggiunge a un altro 4% abbondante non ancora recuperato dalla crisi finanziaria esplosa nel 2008.

Per l’Italia, la fine dei giochi. Era il 2012, quando il governo Monti firmava il Fiscal Compact, un accordo che prevede il raggiungimento del pareggio di bilancio e la discesa dei rapporti debito/pil al 60% entro l’arco di un ventennio.

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Quell’accordo in Italia veniva costituzionalizzato, inserendo il pareggio di bilancio all’art.81 della nostra Carta. Il non detto di quell’intesa è che fu una sorta di moneta di scambio tra Germania, BCE e Commissione europea: la prima pretendeva rigore fiscale dalla terza, consentendo alla seconda di varare anni dopo gli stimoli monetari necessari per affrontare la crisi dell’economia e dei mercati, con il lancio del “quantitative easing”, che avvenne agli inizi del 2015. Il baratto aveva un obiettivo chiaro: mettere in sicurezza l’euro senza che ciò incentivasse gli stati al lassismo fiscale.

La Bundesbank formalmente si oppose al QE di Francoforte, intravedendo il rischio di “azzardo morale” da parte dei governi, ovvero che questi avrebbero approfittato del calo dei rendimenti conseguente agli acquisti di titoli di stato per rinviare il risanamento dei conti pubblici e magari aumentare la spesa. Allora, la reazione di tutta la stampa, oltre che della maggioranza dei policy maker fu quasi di derisione delle posizioni tedesche. Invece, duole ammettere che il governatore Jens Weidmann aveva ragione.

L’Italia, che aveva reagito alla crisi dello spread del 2011 con azioni drastiche di risanamento, tagliando la spesa e alzando le tasse, con il QE che riportava i rendimenti sotto controllo iniziava a rilassarsi sul deficit, invocando con il governo Renzi “flessibilità” a Bruxelles, concessagli di anno in anno dietro la promessa di riforme economiche di stimolo alla crescita nel medio-lungo termine.

Avanzo primario sciupato

Qualcosa obiettivamente la fece l’allora premier fiorentino in tal senso, tra riforma bancaria e dell’art.18, ma risulta innegabile il progressivo deterioramento dei conti pubblici, con l’avanzo primario ad essere passato dal 2,3% del 2012 all’1,4-1,5% del biennio 2017-2018. Questo fu il lascito dei governi di centro-sinistra al primo esecutivo di Giuseppe Conte, sorretto da una maggioranza “giallo-verde”, che malgrado le premesse euro-scettiche riportava il deficit ai livelli più bassi dal 2007, alzando l’avanzo primario all’1,7%. Significa che, al netto della spesa per interessi sul debito pubblico, il surplus dello stato diminuiva sotto Renzi-Gentiloni di oltre mezzo punto percentuale di pil, parzialmente compensando proprio il calo della spesa per interessi.

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Se l’Italia avesse proseguito sulla strada dell’irrobustimento dell’avanzo primario ai livelli pre-crisi, all’appuntamento con la più grave crisi economica degli ultimi tre quarti di secolo ci saremmo presentati con i conti in ordine, vale a dire con il bilancio in pareggio e parecchi punti di debito in meno, ossia anche con maggiori margini di manovra per affrontare l’emergenza. La strada che si preferì imboccare sin dal 2014 fu diversa. Matteo Renzi iniziò a reclamare maggiore capacità di spesa per sostenere l’economia e, a fronte di risultati a dir poco trascurabili sul fronte della crescita, il rapporto debito/pil si è stabilizzato intorno al picco.

Questa traiettoria non è parsa convincente agli stessi mercati finanziari, che inizialmente diedero fiducia alla volontà del governo di stimolare la crescita con una manovra fiscale all’apparenza positiva, ma che si accorsero poco dopo quanto i provvedimenti di spesa adottati finissero nel calderone della spesa pubblica senza alcun impatto significativo sul pil e sull’occupazione. Ebbene, oggi per sfuggire proprio alla crisi di credibilità tra gli investitori, l’Italia chiede alla Germania di accettare di emettere debito in comune, così da minimizzare i costi e sostenere meglio la propria economia. I tedeschi rispondono picche, sentendosi “traditi” per quel patto non ottemperato dagli italiani e che presupponeva una politica monetaria espansiva accompagnata da una fiscale restrittiva.

I tedeschi non si fidano più

Va detto che la rottura del patto non è avvenuta solo per italica furbizia, bensì anche per realismo politico. Stremata dalla peggiore crisi dal Secondo Dopoguerra, l’economia non avrebbe retto a nuovi tagli alla spesa e ad altri aumenti delle già altissime tasse. Il tentativo fu di allentare la morsa sugli italiani, ma i risultati non a caso non arrivarono. Non c’è stata nell’ultimo quinquennio alcuna linea di politica economica a Roma, nessuna costruzione di prospettive a lungo termine, quanto una semplice navigazione a vista. Con il bonus degli 80 euro si sono voluti stimolare i consumi interni, con il reddito di cittadinanza e quota 100 affrontare casi di povertà e di insofferenza tra le fasce dei lavoratori over 60, ma tutto questo è avvenuto senza una visione d’insieme sulla direzione che l’Italia avrebbe dovuto prendere. Nessun governo si è interrogato seriamente sul mix tra tassazione e spesa, puntando di volta in volta alle solite marchette elettorali.

Con molta probabilità, la Germania avrebbe reagito negativamente agli Eurobond anche se avessimo fatto davvero i compiti a casa, ma almeno ci saremmo presentati con le carte in regola. Anzi, probabile che non avremmo avuto bisogno di richiedere alcun tipo di soccorso all’Europa, se dopo il 2011 avessimo risanato i conti pubblici e varato lungimiranti provvedimenti pro-crescita, perché al di là del fatto che la mole di debito sarebbe rimasta elevata al rispetto al pil – pur meno di oggi – non avremmo perso la fiducia dei mercati, anche grazie alla BCE.

Invece, oggi gli investitori temono di prestare denaro a un fondo senza pozzo e che per giunta non riesce nemmeno a spenderlo in maniera da esitare risultati positivi visibili, sprecandolo nell’assistenza a pioggia, mentre le infrastrutture collassano, ahi noi, nel senso letterale del termine. E un giorno, certamente non vicino, la BCE alzerà i tassi e l’Italia sarà nei guai più totali.

La crisi dell’economia italiana sarà pesantissima, ricordatevi queste tre lettere: U, V e L

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