E’ crollato ai minimi dal dicembre del 2005 il prezzo del caffè Arabica sui mercati internazionali, scendendo lo scorso martedì a 91,50 centesimi di dollaro per libbra, anche se al momento risulta risalito a 95 centesimi. In ogni caso, il tonfo negli ultimi 30 mesi è stato del 42% e da inizio anno ammonta a poco meno del 7%. Esattamente 8 anni fa, le quotazioni sfioravano i 3 dollari per libbra, per cui da allora hanno perso oltre i due terzi del loro valore. Ai minimi da oltre 3 anni anche le quotazioni della qualità Robusta, scese martedì a 1.413 dollari per tonnellata, risalendo oggi in area 1.454 dollari.

Come sempre, quando i prezzi ripiegano così velocemente, esiste un eccesso di offerta. In effetti, la produzione sta andando a gonfie vele in Brasile, dove quest’anno il raccolto dovrebbe attestarsi a 55 milioni di sacchi da 60 kg ciascuno, seppure in calo rispetto alla passata stagione, quando erano arrivati a 61,6 milioni di sacchi, di cui 47,4 per la Arabica e 14,2 milioni per la qualità Robusta.

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Ogni ciclo biennale è caratterizzato dall’alternanza di raccolti abbondanti, seguiti da raccolti meno generosi, per cui il calo di quest’anno s’insinua in un trend naturale e previsto. Peraltro, l’indebolimento del cambio brasiliano contro il dollaro ne sprona le esportazioni, rendendo più interessanti i valori internazionali per i produttori locali. Resta il fatto che la produzione mondiale nel 2018 sia risultata di 7,9 milioni di sacchi superiore alla domanda, mentre quest’anno si prevede un deficit di 1,2 milioni, insufficiente a svuotare i magazzini, per cui il sollievo per le quotazioni internazionali sarebbe limitato.

La Colombia minaccia la fuga da New York

Una delle cause dell’aumento dell’offerta recente è stato l’incentivo offerto dal governo in Colombia agli agricoltori per produrre caffè. Lo scorso anno, di chicchi qui ne sono stati raccolti 13,6 milioni di sacchi per la qualità Arabica, seppure in calo del 4,5% rispetto al 2017.

Il tempo più secco quest’anno dovrebbe sostenere il raccolto. La federazione dei produttori colombiani, però, non ci sta a subire questi crolli di prezzo, lamentando di non riuscire così nemmeno a coprire i costi, ambendo a fissare le quotazioni intorno a 1,40-1,50 dollari per libbra, cioè circa il 50% più alte dei ricavi esitati dall’ICE di New York. Per questo, minaccia apertamente di abbandonarne le contrattazioni, così da poter spuntare con un mercato autonomo prezzi più alti e superiori ai costi.

Tuttavia, la proposta rischia di rivelarsi un boomerang per i diretti interessati. Shawn Hackett, presidente della società di brokerage specializzata nel trading di materie prime agricole, Hackett Financial Advisors, nota come la Colombia fino a pochi anni fa fosse imbattibile per qualità del caffè, ma che oggi la situazione risulta cambiata, perché chicchi buoni se ne trovano in Brasile, nel Centro America e in Africa. Se i produttori colombiani boicottassero l’ICE, spiega, gli acquirenti potrebbero semplicemente cercare alternative disponibili altrove, privandoli di sbocchi.

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La minaccia dei colombiani ha le armi spuntate

La federazione nazionale stima i costi in 760.000 pesos locali per sacco da 125 kg, cioè a circa 90 centesimi di dollaro per libbra, poco sotto le quotazioni attuali. Poiché l’idea di abbandonare le contrattazioni a New York appare irrealistica, probabile che le coltivazioni subiranno variazioni. Nel 2013, ad esempio, molti produttori colombiani decisero di passare dall’Arabica alla Robusta, in quanto quest’ultima è una qualità coltivabile a costi più bassi. In effetti, se si guarda all’andamento dell’ultimo semestre, scopriamo che il crollo del prezzo dell’Arabica è stato superiore a quello subito dalla Robusta, vale a dire del 22% contro il 15%.

Anche su base annua, il calo risulta superiore per l’Arabica, seppure non di molto (-19% versus -16%).

Nel 2000, un accordo tra paesi produttori per “congelare” un quinto del raccolto fino a quando i prezzi non fossero risaliti a 1,05 dollari per libbra si rivelò un fallimento. In pochi aderirono, anche perché ci fu tutta la convenienza per quanti fossero rimasti fuori dall’accordo di approfittare del recupero delle quotazioni per vendere il caffè a prezzi maggiori. Come sempre, non saranno i controlli sui prezzi a riportare il mercato mondiale in equilibrio (vedasi le frustrazioni degli stati dell’OPEC per il petrolio), bensì i movimenti che avverranno sul fronte delle coltivazioni per la spontanea reazione dei produttori alle variazioni dei prezzi. Alcune piantagioni in Perù starebbero già per essere riconvertite alla produzione di coca, un fatto che segnalerebbe come la persistenza di prezzi così bassi da qui a qualche anno sarebbe in grado di sostenere i prezzi, attraverso un calo dei raccolti, a parità di domanda.

Attenzione a pensare che il crollo dei prezzi si traduca automaticamente in un beneficio per i bevitori di caffè nel mondo. Starbucks, ad esempio, nel 2018  ha complessivamente ritoccato i listini al rialzo dell’1-2%, un fatto che si spiegherebbe poco con le dinamiche del mercato della commodity. La risposta sta nell’effettiva composizione di una tazzina di “caffè” bevuta in ognuno dei punti vendita della catena: si va dallo zabaione alla spezia di zucca, passando per il caramello e la cannella. Insomma, tanti ingredienti, i cui costi variano l’uno indipendentemente dall’altro e alla fine annullano o quanto meno attutiscono gli effetti delle variazioni accusate in un senso o nell’altro dai chicchi. Un fenomeno, tuttavia, che poco riguarda l’Italia. Noi per caffè intendiamo proprio il caffè. E chissà che con questi ribassi, l’aroma sarà un po’ più dolce da qui a breve.

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