Matteo Renzi non correrà alle prossime primarie. Lo ha confermato Ettore Rosato, capogruppo uscente alla Camera per il PD e ideatore della “geniale” legge elettorale con cui abbiamo votato domenica. Si chiude un ciclo quadriennale, che ha visto l’ex sindaco di Firenze scalare il partito, dopo avere perso la prima battaglia (fortuna sua) con Pierluigi Bersani alla fine del 2012, conquistando prima la segreteria e poco dopo anche Palazzo Chigi, lasciandosi dietro una scia di sangue (politico, s’intende) e tanta, tantissima antipatia.

Nessuno credeva in un risultato così pessimo alle elezioni politiche per il PD. Le dimissioni da segretario sono state imposte dalla realtà, ma è stato un psicodramma persino il modo in cui sono state annunciate, ovvero postdatate. La linea renziana sembra risoluta: gli elettori ci hanno voluti all’opposizione e andremo all’opposizione. Niente accordi con M5S e Lega.

Nel suo partito, non tutti la pensano così. Non c’è solo il governatore pugliese Michele Emiliano a invocare esplicitamente l’alleanza con i 5 Stelle. Ieri, il presidente Sergio Mattarella ha invitato al senso di responsabilità e in molti hanno letto tale dichiarazione come un appello al PD, affinché appoggi in un qualche modo i grillini al governo, evitando che ci vada Matteo Salvini. Lunedì, si terrà la direzione del PD e in quell’occasione dovrebbe essere fatto il punto della situazione, oltre che un’analisi del voto, per quello che vale.

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Se Renzi lascia, Carlo Calenda s’iscrive al partito. Il ministro dello Sviluppo ha negato con decisione di ambire alla segreteria e ha fatto il nome di Paolo Gentiloni come leader del PD, ma avvertendo che straccerebbe la tessera un secondo dopo che dovessero essere annunciate alleanze con i grillini. In questa crisi drammatica, si fa strada l’ipotesi di una corsa alle primarie di Walter Veltroni, mentre l’ex premier Romano Prodi conferma di essere a disposizione del partito.

Insomma, i vecchi che ritornano, mentre è ufficiale la candidatura di Nicola Zingaretti per il dopo-Renzi, fresco di vittoria alle elezioni regionali del Lazio, dove ha prevalso non nettamente sul rivale di centro-destra Stefano Parisi e più per via delle divisioni nel campo avversario che per consensi solidi nel proprio, pur avendo goduto di un’alleanza con Liberi e Uguali.

Tutti in corsa a guidare il PD

Lo stesso governatore piemontese Sergio Chiamparino sarebbe tentato di correre alle primarie. Fosse una questione di leader, problemi il PD non ne avrebbe, forse non ne avrebbe mai avuti. Sin troppi gli uomini che hanno ambito a guidarlo, troppo poche le idee sul tavolo, tantissime le divisioni, spesso riflettendo distinguo più personali che politici. A Renzi viene rimproverato di avere portato il partito su posizioni troppo centriste, se non di destra. Non pare, però, che chi abbia avuto i numeri in Parlamento per bloccare quella che percepiva come una “deriva” lo abbia fatto, almeno non nei tempi dovuti. Per questo è stata punita l’ipocrisia degli “scissionisti” come Pierluigi Bersani e Pippo Civati, che dopo avere appoggiato i governi Renzi-Gentiloni fino all’ultimo respiro nella scorsa legislatura, si sono ricordati di avere una storia diversa, di sinistra.

Cosa persino peggiore è che il PD si comporta da malato terminale in preda all’euforia per vivere gli ultimi istanti della propria esistenza terrena. Non sta elaborando il lutto che ha subito domenica o che diverrà tale presto, dimenandosi nella ennesima ricerca bulimica di poltrone, quando gli elettori hanno ben evidenziato solamente 5 giorni fa che non vorrebbero vederselo tra i piedi per un bel po’. In ciò ha perfettamente ragione Renzi.

Chi pensa che si debba reagire al decesso con il baratto di questa o quella presidenza non si rende davvero conto che la prossima fermata sarebbe al cimitero, quando già predomina al Nazareno quello delle idee.

Alleanza PD 5 Stelle, tutti mollano Renzi per Di Maio

Si dirà, ma un governo dovrà pure essere formato. Certo, ma strategicamente sarebbe più conveniente che il PD se ne stesse in un cantuccio all’opposizione per vedere cosa siano in grado di combinare gli altri, ovvero grillini, leghisti e azzurri, scomparendo dai radar per diversi mesi e riflettendo sulle ragioni per cui oggi non lo votino né i ceti produttivi, né le fasce deboli della popolazione, mietendo consensi perlopiù tra i dipendenti pubblici e gli anziani, ovvero le fasce della popolazione più garantite, come se Renzi non fosse mai esistito come fenomeno politico o esperienza di governo.

Il PD deve stare al governo

Ma girano tra i giornali analisi svariate, alcune delle quali tragicamente vere: il PD non può stare all’opposizione. In che senso? Esso è nato per governare, come dimostra l’appoggio al governo Monti, il più impopolare della storia repubblicana, i governi Letta-Renzi-Gentiloni costruiti con lo sputo e grazie agli apporti di allegri “traditori” del centro-destra, come segnala la volontà ostentata di continuare a restare al centro dei giochi persino adesso che può vantare circa 170 parlamentari sui 945 eletti e che è uscito trafitto pure in Emilia-Romagna e Toscana, storiche regioni rosse, che si sono tinte di azzurre all’uninominale. E perché il PD non può stare all’opposizione? Perché è semplicemente un gruppo di potere e parecchio avido. Non punta a governare, bensì a stare al governo. Se fosse ricacciato tra i banchi dell’opposizione, dovrebbe ricostruire il consenso con l’elaborazione di una linea programmatica, ideale, ovvero sarebbe costretto a ragionare, quando la cosa che gli riesce benissimo e incommensurabilmente meglio di ogni altro schieramento è la gestione del potere con cui distribuire prebende e cercare di rafforzare o mantenere i consensi (vi dicono qualcosa i bonus?).

Il PD senza governo non esiste. Lo dimostra il fatto che quando è stato all’opposizione ha cercato sempre non di andare alle elezioni, bensì di fare succedere al governo uscito dalle urne un altro esecutivo messo in piedi a tavolino, tecnocratico, in cui insinuarsi per strappare visibilità e consensi tra i poteri che contano e sperare così in un endorsement esplicito di industriali, stampa e cancellerie internazionali, da sfruttare per segnalare agli elettori la propria maggiore credibilità rispetto agli avversari, ben consapevole di non essere mai stato in grado di convincere, almeno non una fetta maggioritaria degli italiani, se non alle elezioni europee del 2014, che rimarranno scolpite nella storia del centro-sinistra come una maledizione, essendo tutto iniziato a franare proprio da quell’apice.

Il PD non può allearsi con Salvini, perché sa che non sarebbe accettato dalla residua base elettorale, che verrebbe meno l’ultimo distinguo pseudo-ideologico che lo tiene in campo come soggetto di centro-sinistra e non puramente di potere. Sa anche che non potrà governare con l’M5S, ma che in virtù della sua caratterizzazione non ideologica, gli verrebbe più facile stringere un’intesa, quanto meno con lo scopo di prendere tempo e sperare, andreottianamente parlando, che accada qualcosa per cui nei sondaggi potrà risalire e tornare al governo da solo, meglio se con qualche legge elettorale scritta su misura. Il PD non può stare all’opposizione, perché non saprebbe nemmeno cosa contestare a una maggioranza. La logica del potere gli è così connaturata, che per esso tutto andrebbe bene, compreso che un governo “massacrasse” sul piano economico i lavoratori. Lo ha dimostrato ampiamente: destra, sinistra, centro, tutto è possibile sostenere per continuare a calpestare il pavimento di Palazzo Chigi. Male che vada, prima delle elezioni ci s’inventa la riscoperta delle tradizioni social-comuniste. Le batoste non insegneranno mai nulla al Nazareno e alla sinistra italiana, in generale. Da qui la corsa di tutti a guidare un soggetto inesistente, consapevoli che, in ogni caso, il partito al governo ci va, anche perdendo le elezioni. Perché essendo il partito-sistema, ha un plus di “responsabilità” da fare valere.

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