Per chi se ne fosse scordato, le regole fiscali nell’Eurozona sono state semplicemente sospese. E a farcelo capire sono stati nelle ultime ore molteplici interventi, forse non casualmente concentrati in così breve tempo. Il vice-presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, si è detto assolutamente convinto che “in autunno” o “al più tardi nella primavera dell’anno prossimo” Bruxelles debba decidersi sulla riattivazione del Fiscal Compact. Gli ha fatto eco il presidente uscente dell’Eurogruppo, il portoghese Mario Centeno, che ha invitato, però, alla prudenza.

Nel frattempo, il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, gettava acqua sul fuoco dicendosi certo che il Fiscal Compact non verrà riattivato per tutto il 2021.

Il Fiscal Compact è stato spazzato via dal Coronavirus una volta per tutte?

Il premier olandese Mark Rutte approfitta, invece, di un’intervista al Corriere della Sera per ribadire i suoi concetti-chiave sull’Italia: piena solidarietà, così come alla Spagna, in quanto duramente colpita dalla pandemia, ma deve imparare ad essere “resiliente” agli shock, così che la prossima volta riesca a “farcela da sola”. Come? Varando riforme per diventare più competitiva, anche attuando “misure impopolari”. E aggiunge: il “Recovery Fund” dovrebbe erogarle prestiti e non aiuti a fondo perduto, accertato che i primi non renderanno meno sostenibile il suo debito pubblico.

Quale sarebbe il senso di tutte queste dichiarazioni? Nessun dubbio che il Fiscal Compact non sarà attivato nemmeno per l’anno prossimo, ma superata la crisi tornerà in vigore. Certo, il problema posto da Gentiloni è capire quando la crisi sarà superata. L’italiano crede che non bisogna confondere la ripresa con il rimbalzo piuttosto scontato del pil dopo la caduta di questo 2020. E propone di guardare ai livelli dei pil pre-Covid per capire se le economie siano o meno uscite dalla crisi. Solo successivamente, quindi, gli stati dovrebbero ottemperare ai contenuti del Fiscal Compact.

Via la regola del 60%?

Parliamo di quell’insieme di regole fiscali, secondo le quali il deficit massimo consentito ai governi sarebbe del 3% rispetto al pil e il rapporto tra debito pubblico e pil dovrà tendere al 60%. Ma il presidente dello European Fiscal Board, Niels Thygesen, ha dichiarato che a suo avviso la Commissione dovrebbe eliminare proprio il riferimento a quel 60%, in quanto divenuto “irrealistico” dopo il Coronavirus, chiedendo che al suo posto si assegnino obiettivi compatibili con le condizioni dei singoli stati. Parole molto interessanti di colui che presiede l’organismo di vigilanza dei bilanci comunitari, perché preluderebbe almeno a un dibattito sul mantenimento di una delle regole auree dei trattati di questi decenni.

La Germania sinora si è mostrata inflessibile, insieme ai suoi alleati del Centro-Nord Europa, sul punto. Essa stessa ha compiuto sacrifici per riportare il suo debito al 60% del pil con una politica fiscale alquanto restrittiva negli ultimi anni, caratterizzata da cospicui avanzi di bilancio. Non sarebbe facile far digerire ai tedeschi un cambio di rotta su un tema per loro così sensibile. Eppure, la realtà che si presenta dinnanzi agli occhi di tutti è evidente: quest’anno, il rapporto debito/pil medio stimato nell’unione monetaria esploderà sopra il 100%, con Grecia, Italia, Portogallo, Francia e Spagna sopra il 120%. Che senso avrebbe continuare a perseguire un obiettivo, che nemmeno da qui a qualche decennio sarebbe alla portata della stragrande maggioranza degli stati dell’euro?

Questo non implica anche, però, maggiore rilassatezza fiscale nell’area. Il segnale che è partito da Bruxelles riguarda proprio l’Italia, dove da mesi si respira un’aria surreale, con il governo Conte ad allungare di giorno in giorno la lista della spesa a debito, anziché pre-occuparsi di come rilanciare un’economia che si avviava alla recessione anche prima della pandemia e che non era riuscita a superare gli effetti della crisi del 2008-’09.

Palazzo Chigi ha perso del tutto la testa, che ipotizza tagli all’IVA o persino “strutturali” all’IRPEF e, chiaramente, sempre in deficit. L’Europa segue con sgomento tanta schizofrenia e ha giustamente lanciato il suo avvertimento.

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Il segnale all’Italia

Per l’anno prossimo, ci verrebbe concessa tutta la necessaria flessibilità per agganciare il rimbalzo atteso nell’area, così come a tutti gli altri stati. Nessun lassismo, però. Chi s’immagina una legge di Stabilità con decine di miliardi di euro spesi in regalie dal sapore elettoralistico può dimenticarselo, anzi questo atteggiamento da cicala sta indisponendo gli stati già di loro poco propensi ad aprire il portafogli per i partner. Dal bonus vacanze a quello per il monopattino, è tutto un offrire a ogni categoria come nelle più scadenti televendite. Così, rischiamo di allontanare l’accordo che pur faticosamente la Germania vorrebbe trovare per far decollare il Recovery Fund.

Ci sono implicazioni anche di lungo periodo per l’Italia da questo incipiente dibattito sul Fiscal Compact. Probabile che non ci verrà più chiesto di tendere a un debito pubblico al 60% del pil, ma almeno di abbassare il rapporto di anno in anno, così da segnalarne la maggiore sostenibilità. Con una spesa per interessi che tende ormai a portarsi intorno al 2% del pil, se non meno, ci basterebbe mantenere un avanzo primario di eguale misura per non aumentare lo stock passivo, raggiungendo il pareggio di bilancio. Stando ai numeri del 2019, ci saremmo quasi. Il punto sarà tornare e consolidare quegli avanzi dopo questa tragica crisi, un fatto non scontato, dato il clima di lassismo politico che regna a Roma. Nell’arco di un decennio, riusciremmo realisticamente (e confidando nella prosecuzione dell’accomodamento monetario della BCE) a tagliare il rapporto debito/pil sotto il 130%. Non era l’obiettivo che ci eravamo prefissi, ma oggi sembra già un traguardo da sogno.

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