Gli svizzeri sono arrabbiati e i primi a saperlo sono i componenti del governo confederale. Dopo che domenica sera era uscita la notizia del salvataggio di Credit Suisse con denaro pubblico, circa 200 persone si sono radunate davanti al quartier generale della banca il giorno seguente per lanciare uova contro i dirigenti. Gli slogan e i cartelli erano tutti contro il concetto di “too big to fail”, “troppo grande per fallire”, la scusa con cui sin dal 2008 le grandi banche sistemiche sono state salvate nel mondo con migliaia di miliardi di dollari.

L’operazione, annunciata d’intesa tra Banca Nazionale Svizzera (BNS), Finma e governo confederale, costerà una barca di soldi ai cittadini svizzeri.

Sarà di 100 miliardi di franchi svizzeri la copertura garantita a UBS per rilevare Credit Suisse. E altri 9 miliardi andranno per coprire eventuali spese legali, esuberi e perdite. In tutto, 109 miliardi. Ma la BNS metterà a disposizione fino ad altri 100 miliardi, senza copertura da parte del governo, per garantire l’intero sistema bancario elvetico. Il conto complessivo sale così a 209 miliardi di franchi. Suddiviso per gli 8,7 milioni di residenti, ciascuno svizzero pagherà il salvataggio delle banche fino a 24.000 franchi, intorno ai 24.000 euro.

Di fatto, il costo massimo dell’operazione sarà di un quarto del PIL. Una cifra immensa persino per un paese ricco come la Svizzera. E arriva dopo i 60 miliardi di franchi costati nel 2008 il salvataggio di UBS, la banca che adesso sta salvando a spese dei contribuenti la rivale domestica. Allora, lo stato versò 6 miliardi di liquidità, a cui si aggiunsero 54 miliardi di debiti accollati a un fondo statale. Sarebbe dovuta essere l’ultima volta, invece la musica a distanza di quindici anni è rimasta la stessa.

Banche scaricano costi sui contribuenti

Certo, i costi legati al salvataggio di Credit Suisse sopra indicati sono quelli massimi ipotizzati e restare con le mani in mano può costare molto di più.

Ad esempio, ai 100 miliardi di liquidità garantiti dallo stato a UBS si attingerebbe solo nel caso in cui la nuova entità nata dalla fusione fallisse. Uno scenario remoto. Si tratta di liquidità precauzionale, destinata perlopiù a rassicurare i mercati sulla tenuta del sistema finanziario nazionale. Molto più probabile, invece, che saranno utilizzati i 9 miliardi per le varie spese legate a Credit Suisse. E quando questa cifra fu stanziata, forse le autorità elvetiche non immaginavano che gli obbligazionisti subordinati avrebbero minacciato cause legali contro l’azzeramento dei bond AT1 per 17 miliardi.

Insomma, il mantenimento della reputazione svizzera si sta rivelando costoso. E poco importa se alla fine solo una parte degli stanziamenti pubblici sarà utilizzata dalle banche. Il concetto è che sui cittadini-contribuenti grava una spada di Damocle per svariate migliaia di franchi a testa. E senza che chi paga abbia alcuna responsabilità nella crisi. Viceversa, i responsabili non pagheranno di tasca loro e se la vicenda del 2008 ci ha insegnato qualcosa, è che chi crea disastri si porta a casa finanche maxi-bonus per decine, se non centinaia, di milioni di dollari.

E un esito indesiderabile di questo salvataggio è che non ridurrà i rischi per il futuro. La legislazione svizzera post-2008 prevedeva un break-up delle attività delle banche sistemiche. Non è stata attuata con le conseguenze che vediamo in questi giorni. Ma la fusione tra UBS e Credit Suisse crea le premesse per ingigantire ulteriormente le dimensioni della nuova entità. E di salvataggio in salvataggio il costo a carico dei contribuenti si moltiplica. Non è neppure detto che la reputazione della Svizzera ne esca immacolata. In quindici anni si è reso necessario il salvataggio di entrambe le grandi banche del paese, non esattamente un bel biglietto da vista per uno dei più antichi hub finanziari del pianeta.

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