Il primo capitolo della riforma fiscale targata governo Meloni con ogni probabilità sarà scritto in sede di redazione della legge di Bilancio 2023. E’ l’impegno più grande che la maggioranza di centro-destra ha preso con i propri elettori: abbassare le tasse. Adesso, però, la parte più difficile, cioè trovare le risorse. L’indirizzo fornito dalla premier Giorgia Meloni e fortemente seguito da Fratelli d’Italia consiste nel tagliare le aliquote IRPEF, ridurle gradualmente fino a tendere alla “flat tax” e trovare le coperture riducendo bonus e detrazioni fiscali.

Non è certo una novità di pensiero in assoluto. Da molti anni, un po’ tutti i governi riconoscono che il nostro sistema fiscale sarebbe disfunzionale. Da un lato, chiede fin troppo ai contribuenti, ma dall’altro concede bonus e detrazioni ormai praticamente su tutto.

Posizione contraria di Confindustria

Più logico sarebbe se pagassimo tutti meno tasse e, in cambio, approfittassimo di minori detrazioni. Sin qui, la posizione di Confindustria è favorevole sulla riforma fiscale. C’è un punto, invece, sul quale il suo presidente Andrea Bonomi ha espresso contrarietà. E’ quando il governo Meloni promette “più assumi e meno (tasse) paghi”. In realtà, la frase completa sarebbe “più assumi e investi e meno paghi”. Sull’incentivare gli investimenti, nulla quaestio da parte di Viale dell’Astronomia. Ma il legame tra tasse e assunzioni non piace alle grandi imprese.

“Assumere è il nostro mestiere” ha più volte ribadito Bonomi, secondo cui le assunzioni non andrebbero incentivate; semmai, va ridotto il carico fiscale e contributivo che le disincentiva tramite il taglio del cuneo fiscale. L’idea di Bonomi, che qualcuno ha subito definito quasi anti-governativa, al contrario ha basi microeconomiche a cui prestare attenzione. Le imprese per produrre ricorrono a due fattori: il lavoro e il capitale. Il rapporto tra costo del capitale e del lavoro determina la preferenza per il mix ideale.

Bassi salari incentivano le assunzioni, così come bassi tassi d’interesse favoriscono gli investimenti. Ma quando artificiosamente il costo di uno dei due fattori viene alterato, si determina uno squilibrio a favore dell’uno o dell’altro, favorendo processi produttivi inefficienti.

Meno tasse per favorire occupazione

Lo abbiamo visto negli anni passati con i tassi a zero. Sul mercato sono rimaste molte imprese poco produttive e la crescita dell’economia non ne ha beneficiato. Sussidiare le assunzioni a colpi di incentivi fiscali avrebbe simili conseguenze. Le imprese utilizzerebbero più lavoratori per le loro produzioni, ma ciò ridurrebbe gli investimenti e rischierebbe di frenare l’innovazione. Verosimilmente, questa ipotesi porterebbe alla creazione di lavoro poco qualificato. Questo non significa che di per sé l’idea di agevolare le assunzioni sia inconveniente. Pensiamo allo shock necessario al Sud a favore di giovani e donne, in particolare. Solo che non può considerarsi una misura strutturale di politica fiscale.

Nel dettaglio, l’idea al vaglio del governo sarebbe di abbassare l’IRES sulle imprese dal 24% a un minimo del 15% in funzione di investimenti e assunzioni. Anche in questo caso, le coperture finanziarie si troverebbero riducendo le detrazioni fiscali. E su quest’ultimo punto Confindustria non ha esibito alcuna contrarietà. Difficile che l’esecutivo torni indietro sul punto, anche perché ne ha fatto una questione identitaria sin dal discorso d’insediamento della premier davanti alle Camere. “Più assumi e meno paghi” è diventato uno slogan. Vedremo i fatti.

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