Intervista al Dott. Marco Ianniello, analista economico-finanziario e fondatore di Trendintime.com e Marketiming.eu

La Bce ha appena alzato i tassi d’interesse, mentre la Fed li porterà con ogni probabilità tra il 2,5% e il 3% domani. La stretta monetaria è globale dopo un lunghissimo decennio di allentamento senza precedenti. Cosa significa per i mercati passare dai tassi negativi alla normalizzazione monetaria?

Tornare ad una normalità monetaria non riguarda solamente l’uscita dai tassi negativi ma deve considerare anche, e soprattutto, l’uscita dai programmi straordinari di acquisto di asset finanziari il cui fine era contenere il costo del debito a governi, imprese e privati.

La Bce ha dichiarato, a novembre 2021, di terminare a marzo 2022 il Pandemic Emergency Purchase Programme e a giugno 2022 il principale Assets Purchase Programme. Per quanto riguarda questi programmi, abbiamo assistito in appena 8 mesi ad una “corsa” alla normalizzazione monetaria che ha generato un crollo vertiginoso dei prezzi dei titoli sottostanti con un significativo impatto sulle voci del “risparmio prudente”. Uscire da un programma straordinario richiede sicuramente una gradualità tattica diversa, gradualità che la Bce ha messo letteralmente da parte perché spaventata non più dalla pandemia ma da un’inflazione che non è mai stata temporanea.

I mercati in questa fase sembrano temere più la recessione economica che l’inflazione. Secondo lei, hanno già scontato lo scenario peggiore per l’economia? 

Post pandemia abbiamo assistito ad una ripresa economica che di fatto era solo monetaria e di prezzo. La recessione economica, invece, sembra essere la trama del prossimo film dove le Banche Centrali sono purtroppo già concentrate a combattere il nemico chiamato inflazione, mentre gli Stati con i loro debiti pubblici lievitati reciteranno sempre di più il ruolo di comparsa. Il quadro macroeconomico attuale già mostra una crescita negativa del PIL in termini reali con un -1,60% degli Stati Uniti e un -2,60% della Cina.

Il PIL nell’Area Euro segna un 5,40% ma, con un tasso di inflazione del 8,60%, la crescita reale è appena dello 0,60%. Il rapporto debito pubblico sul PIL è al 150% per l’Italia, al 96% per l’Area Euro, al 69% per la Germania. Anche gli Stati Uniti hanno allentato molto le politiche fiscali portando il debito/PIL al 137% mentre la Cina resta al 66%.

L’inflazione è ai massimi da decenni un po’ ovunque e si avvicina pericolosamente alla doppia cifra presso le principali economie mondiali. Quali sono le cause? Dovremmo attenderci, come sostiene la Bce, una stabilizzazione futura su livelli maggiori degli anni pre-Covid? 

L’inflazione è al 9,10% negli Stati Uniti, al 8,60% nell’Area Euro e al 2,50% in Cina. Essa nasce da una rigidità produttiva globale che ha limitato e limita l’offerta di beni e servizi. I periodi di lockdown hanno ridotto ulteriormente la scala produttiva delle imprese e gli stimoli monetari si sono scaricati prevalentemente sul rialzo dei prezzi. In sostanza, l’inflazione di oggi ci segnala che le Banche Centrali in pandemia hanno sovradimensionato gli stimoli monetari: l’inflazione è la risposta spontanea dei mercati alle politiche monetarie iper-accomodanti che durante la pandemia hanno salvato imprese e lavoro. Ma questi stimoli monetari non hanno successivamente riscontrato una adeguata risposta in termini di produttività reale delle imprese, poco reattive e lente a ripartire. In questo schema poi, a complicare le cose, si innestano la rigidità di una crisi energetica e la guerra in Ucraina con le rigide sanzioni alla Russia. Si è passati troppo velocemente da un iper-accomodamento monetario ad una rigidità che sta stringendo l’economia reale ed ha fatto soffrire i mercati finanziari, anche quelli dei titoli per definizione più prudenti.

A suo avviso le banche centrali hanno reagito poco e/o tardi all’inflazione? L’attendismo rischia forse di provocare più danni di quanti ce ne sarebbero stati con un pronto intervento?  

La paura di un’inflazione duratura ha accelerato la risposta delle Banche Centrali verso una normalizzazione monetaria che avrebbe necessitato di un tempo maggiore e di una più attenta gradualità tattica.

Tutti parlano di un’inflazione che erode il potere di acquisto dei consumatori, nessuno parla invece dell’impatto, anche più pesante, che l’alleggerimento quantitativo delle Banche Centrali ha generato sul crollo dei prezzi dei titoli che sono nei portafogli più prudenti dei risparmiatori e dei fondi pensione. Sono stati ben 8 mesi in cui i titoli governativi sono scesi costantemente con punte insostenibili anche fino al -40% e solo ora la Bce, che è silente artefice del fenomeno, parla di scudo anti-spread e lancia il nuovo programma “Transmission Protection Instrument” con cui immagina di riattivare discrezionalmente gli acquisti di titoli per bilanciare la disomogeneità dei rischi nell’Eurozona.

E’ evidente che il TPI sia arrivato ormai troppo tardi (o l’alleggerimento quantitativo sia stato effettuato con troppa rapidità) ed esso si colloca anche in contraddizione con la normalizzazione monetaria avviata. Sicuramente l’uso “discrezionale” di questo strumento dissuaderà ulteriori vendite di titoli e contribuirà a supportare il percorso in atto di normalizzazione dei mercati finanziari obbligazionari. Intanto consumatori e risparmiatori hanno pagato e pagano un doppio conto: l’inflazione che erode il potere d’acquisto dei consumi e l’eccessiva volatilità dei titoli finanziari presenti anche nei loro risparmi prudenti. Con la fine dei piani straordinari di acquisto di titoli, terminato come detto a giugno 2022, questi mercati obbligazionari stanno dando segnali di stabilizzazione.

Se il rischio recessione si materializzasse, pensa che, come nel 2008, passeremo in fretta dall’inflazione a briglie sciolte allo spettro della deflazione? In pratica, crollerebbero i prezzi delle materie prime?  

Dobbiamo tener ben presente che l’inflazione non nasce solo dalle materie prime e dall’energia ma da rigidità nell’offerta produttiva delle imprese.

Alzare i tassi d’interesse significa invece agire prevalentemente sulla domanda aggregata quindi non appare la scelta più convincente. Bisognerebbe attivare idonee politiche per fluidificare i mercati della produzione, rendere più competitivi i mercati delle materie prime e dell’energia ma sono concetti molto complessi e non certo immediati. Il rialzo dei tassi e la contrazione della domanda aggregata alimenteranno spinte recessive lasciando che, con la deflazione, i prezzi di mercato si aggiustino da sé. Di fronte a questo possibile scenario futuro, i mercati energetici, nell’ultimo mese, sono già entrati in volatilità: il prezzo del petrolio wti è sceso mediamente di un -20% ed il prezzo del gas naturale, con qualche escursione in più, si è attestato ad un -14%.

Un’ultima domanda: crede che sarà possibile per le grandi banche centrali combattere fino in fondo l’inflazione o dovranno fermarsi quanto prima per il rischio di far schiantare le rispettive economie? In altre parole, la Fed davvero porterà i tassi entro l’anno intorno al 4%?

Il tasso d’interesse negli Stati Uniti è attualmente all’1,75% e sicuramente subirà delle revisioni al rialzo, anche imminenti, per combattere l’inflazione americana al 9,10%. Quanto questa politica monetaria sarà efficace, almeno per gli Stati Uniti, dipenderà solo dalla reattività del sistema produttivo delle imprese e del mercato del lavoro americani che, nonostante le restrizioni monetarie in atto, hanno sempre sorpreso rispondendo in modo più fluido e flessibile.

In Europa, invece, termina a luglio 2022 la straordinaria era dei tassi negativi iniziata nel 2016 con la Bce che ha alzato, di ben mezzo punto, il tasso di riferimento principale a 0,50% per fronteggiare un’inflazione Area Euro all’8,60%.

In questi ultimi due anni, le Banche Centrali sembrano esser state animate più dalla “paura” (della pandemia e dell’inflazione) che dal “governo” dell’economia: esse hanno agito in risposta agli eventi invece di attuare delle politiche di indirizzo. Il compito principale delle Politiche Economiche è quello di stabilizzare i mercati dell’economia reale, controllando il regolare funzionamento dei mercati finanziari e dei canali di trasmissione delle politiche stesse. Agire a rimorchio dei mercati può servire a tamponare gli eventi ma non sterilizza l’emotività e l’incertezza dei mercati, non rassicura la fiducia degli operatori e subisce la volatilità degli eventi stessi.

In conclusione, cosa occorre fare? Occorre che le Banche Centrali valutino attentamente l’efficacia dei loro rialzi dei tassi sia su un’inflazione che abbiamo definito “inflazione da offerta” e sia su una crescita reale a livello globale. Sarebbe stato opportuno anche uscire con più gradualità e discrezionalità dai programmi di acquisto di titoli (azione terminata a giugno 2022) per non destabilizzare troppo i mercati finanziari. A livello di Governi, occorre che vengano realmente attuate politiche massive di vera incentivazione verso fonti energetiche alternative per ampliare un’offerta produttiva energetica nel rispetto sia della sostenibilità ambientale ma anche di una vera sostenibilità economica. Occorre monitorare attentamente i prezzi energetici per controllare un simmetrico adeguamento, al rialzo e al ribasso, per i consumatori finali e non solo pensare a miseri bonus fiscali che appesantiscono ulteriormente il debito pubblico. Occorre non demonizzare ma regolamentare correttamente i bonus fiscali nel settore trainante dell’edilizia ma attuando anche un controllo centrale sulle speculazioni dei prezzi connesse agli incentivi. Infine, in ambito finanziario occorre, come sempre, leggere costantemente i mercati i quali, con i loro spontanei meccanismi di aggiustamento, forniscono utili informazioni per cogliere opportunità di trading e di pianificazione del risparmio.

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