Il vertice odierno a Bruxelles sulla crisi dei migranti vede la cancelliera Angela Merkel giocarsi il tutto per tutto. Se tornasse a mani vuote a Berlino, il ministro dell’Interno, Horst Seehofer, avvierebbe le pratiche di separazione della CSU dalla CDU al Bundestag e si sentirebbe in diritto di procedere con i respingimenti alle frontiere tedesche degli immigrati clandestini. La cancelliera vuole evitarlo in tutti i modi, temendo che la pressione conseguente che subirebbero gli altri stati della UE finirebbe per fare esplodere l’area Schengen, portando al tramonto delle istituzioni comunitarie.

Dal canto suo, Seehofer crede all’esatto contrario, ovvero che la politica delle porte aperte, inaugurata dalla Germania nel 2015, abbia deresponsabilizzato i partner europei, creando semplicemente flussi incontrollati di immigrati a spasso verso la prima economia del continente.

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Mai Frau Merkel era stata così debole politicamente. Il suo declino inizia proprio con la cattiva gestione della crisi dei migranti di 3 anni fa, ma si aggrava con il referendum sulla Brexit del giugno 2016, passando per lo shock della vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali negli USA del novembre successivo, arrivando alle elezioni federali del settembre scorso, quando la sua coalizione di centro-destra ha ottenuto appena il 33% dei consensi, la percentuale più bassa dal 1949. E non ultimo, il voto del 4 marzo scorso, quando l’Italia si è praticamente consegnata a una maggioranza euro-scettica, formalizzata a inizio giugno con la nascita del governo Conte di Lega e Movimento 5 Stelle.

Il declino della leadership merkeliana, tuttavia, parte da lontano ed esattamente dal 2010. Quell’anno, esplode in tutta la sua drammaticità la crisi del debito sovrano in Grecia, quando l’allora premier George Papandreou, appena reduce da una vittoria elettorale del suo Pasok, aggiornava Bruxelles sul fatto che il deficit pubblico reale di Atene fosse superiore al 15% del pil.

I mercati finanziari andarono in tensione, i rendimenti sovrani schizzarono e fu subito chiaro che i greci non avrebbero potuto continuare ad emettere titoli del debito a costi sostenibili. Qui, inizia la sequela di tragici errori della Germania e, per estensione, di tutta la UE. Anziché prendere di petto la situazione, la cancelliera tentenna, incalzata dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, che dietro le quinte arriva a minacciare la fine dell’Eurozona, se Berlino non acconsente a erogare aiuti ad Atene.

Tutto nasce con la Grecia

La Germania si mostra contraria a sostenere finanziariamente la Grecia, ritenendo che ciò provochi il rischio di un “azzardo morale” per tutta l’area e consapevole che l’opinione pubblica tedesca sia ostile. Prevale l’atteggiamento punitivo, che si traduce in richieste in sé ragionevoli sulle riforme da attuare, ma non per i tempi. Ad Atene regna l’instabilità e nel giro di 5 anni si succedono 4 tipi governi: socialista, tecnico, conservatore e anti-austerity di Syriza-Anel. L’economia ellenica sprofonda del 28% in 8 anni al 2016 e la disoccupazione esplode fino al 27%, mentre le condizioni di vita di milioni di greci diventano molto precarie. Nemmeno sul fronte dei salvataggi si ottengono risultati apprezzabili: serviranno 3 “bailout” per complessivi 273 miliardi di euro e un taglio del debito (“haircut”) da 107 miliardi a carico dei creditori privati nel 2012, salvo ritrovarci oggi a un rapporto debito/pil al 180%.

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Eppure, sarebbe bastata maggiore concretezza per sventare sul nascere che la crisi di fiducia sui mercati degenerasse, contagiando anche Portogallo, Spagna, Italia e Cipro. Se la UE avesse semplicemente rassicurato gli investitori sulla copertura integrale dei debiti di nuova emissione di Atene per un periodo di anni congruo, forse non avrebbe avuto bisogno di sborsare un solo euro per aiutare la Grecia, in quanto i mercati avrebbero confidato nella garanzia dell’Eurozona, magari tramite la BCE o altro istituto nato ad hoc (Efsf?), richiedendo rendimenti contenuti e a basso premio rispetto a quelli “benchmark” tedeschi.

In cambio, il governo ellenico si sarebbe impegnato a varare riforme economiche e a tagliare il deficit in un numero di anni realistico e sostenibile sul piano politico, evitando drammi finanziari, economici, istituzionali e sociali.

La Merkel, pressata dal suo partito affatto solidale con il resto dell’area, optò per una linea dura e al tempo stesso inconcludente, assistendo inerte quasi alla scomparsa dell’euro nel 2012, evitata per un soffio solo dall’intervento tempestivo e fortunato del governatore della BCE, Mario Draghi, con il famoso “whatever it takes” pronunciato quel 26 luglio di 6 anni fa, a dimostrazione che ai mercati servisse semplicemente una garanzia sovranazionale rispetto ai pur gravi problemi fiscali emersi qua e là nell’area.

La fine vicina dell’era Merkel

Con la crisi dei migranti, la Merkel ha fatto il resto. Da un lato, porte della Germania spalancate ai rifugiati siriani (e non solo) per alleggerire la pressione sulla Grecia e anche su Ungheria e Austria, dall’altro testa sotto la sabbia sugli sbarchi presso le coste italiane, lasciate abbandonate da un’Europa senza bussola e senza supporto politico da parte del suo azionista di maggioranza, ossia Berlino. E così, mentre giovedì sera si ratificava l’uscita della Grecia dall’ultimo salvataggio pubblico, oggi l’Italia potrebbe determinare la fine politica della cancelliera, se opporrà il veto alla soluzione che il gruppo dei 10 stati coinvolti dalla crisi dei migranti presenterà al vertice di Bruxelles. Quella che in patria era considerata una virtù di Mutti – il suo temporeggiare – rinviando lo scioglimento dei nodi alle calende greche, adesso si è palesata come un evidente boomerang, che rischia di paralizzarla o di travolgerla del tutto a casa.

La stessa scarsa elasticità mentale nell’affrontare i problemi interni all’Eurozona è stata segnalata dalla cancelliera nei confronti dell’amministrazione Trump. Anziché puntare sulla ricerca di una nuova sintonia con Washington, Frau Merkel ha opposto al presidente americano la sua visione delle relazioni internazionali senza offerta alcuna di dialogo, finendo per contribuire alla guerra dei dazi in corso tra le superpotenze mondiali. E ancora prima era accaduto lo stesso con Londra, quando fu negato al governo Cameron un accordo onorevole da vendere in patria per evitare la vittoria dei “Leave” al referendum sulla Brexit, ottenendo proprio l’uscita del Regno Unito dalla UE.

La cancelliera sembra avere compreso tardi i suoi errori e con l’Italia di Salvini-Di Maio ha cambiato registro, comprendendo come l’Europa non possa permettersi una nuova “exit” e che il tasso di euro-scetticismo a Roma sia elevato proprio in conseguenza del rapporto pessimo instaurato da Bruxelles con i governi italiani degli ultimi 7-8 anni. Gli interventi a gamba tesa di Berlino per disarcionare il Cavaliere nel 2011, il tifo spudorato e la benedizione in favore del governo Monti subito dopo, nonché i toni da primi della classe di Berlino verso il nostro Paese hanno alienato il popolo italiano, spingendolo su posizioni contrarie persino spesso alla permanenza nell’Eurozona o della stessa UE. I 13 anni della Merkel al governo federale tedesco sono stati senz’altro positivi per la prima economia europea, dove la disoccupazione è ai minimi storici, il pil cresce al ritmo del 2% all’anno e le esportazioni nette si aggirano sui 250 miliardi all’anno, ma devastanti per la tenuta delle istituzioni comunitarie e l’euro. E il risentimento nei suoi confronti si è impennato persino in patria, dove nei consensi avanzano nettamente gli euro-scettici e crollano gli schieramenti tradizionali. E’ la sconfitta più plateale dell’era Merkel, che da “regina d’Europa” senza una visione del suo regno rischia di fare la fine di Maria Antonietta.

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