Il cambio euro-dollaro ha perso il 2,5% nelle ultime tre settimane, scendendo a 1,1740 oggi, pur restando in rialzo dell’11,5% quest’anno. Dopo avere fatto qualche capatina aldilà della soglia di 1,20, la moneta unica sembra ritrarsi e assestarsi intorno a 1,18, puntando a tratti anche un po’ più giù. Certo, dalla BCE sono arrivati diversi commenti a sostegno della tesi di un “tapering” molto graduale, da ultimo quello del governatore austriaco Peter Praet, ma in generale è il ritorno dei rischi politici, se mai se ne fossero andati via, a preoccupare il mercato.

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Il ritorno dei rischi politici

Due domeniche fa si è votato in Germania e la prima economia dell’Eurozona ha registrato il peggiore risultato dal Secondo Dopoguerra per i due partiti tradizionali, che messi insieme arrivano a poco più del 53% nei consensi, quando nel 2013 rappresentavano oltre i due terzi dell’elettorato. Al contrario, gli euro-scettici dell’AfD volano al 13% e diventano terza forza elettorale e parlamentare tedesca. Venendo meno il supporto dei socialdemocratici alla riedizione della Grosse Koalition, la cancelliera Angela Merkel, oltre a uscire indebolita sul piano federale ed europeo, dovrà raffazzonare un’inedita alleanza con liberali e Verdi in quello che sembra un futuro governo dai piedi di argilla.

Come se non bastasse, ieri è accaduto l’inverosimile in Catalogna, dove un referendum quasi farsesco sull’indipendenza della regione dal resto della Spagna è finito nel sangue, con 8-900 feriti e tensioni alle stelle tra Barcellona e Madrid. Il governo del premier conservatore Mariano Rajoy, è bene ricordarlo, poggia in Parlamento su una maggioranza relativa dei seggi, non assoluta. Se il deterioramento del clima politico portasse i socialisti ad abbandonare la strategia dell’astensione e a mettere in difficoltà l’esecutivo, il rischio di una fine anticipata della legislatura si farebbe concreto e con esso anche quello di una possibile ascesa a sinistra dei populisti di Podemos, contrari alle politiche di austerity e, per quanto non euro-scettici, di fatto con un programma incompatibile con la permanenza della Spagna nell’Eurozona, simile a quello di Syriza in Grecia.

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Nel breve termine, quindi, vi sarebbero sufficienti ragioni per restare guardigni sull’euro. Da qui ai prossimi 5 mesi, poi, a votare ci andrà anche l’Italia, dove oltre al caos politico di per sé notevole, bisogna considerare anche l’assenza (ad oggi) di una legge elettorale coerente e omogenea tra Camera e Senato, preludio di tensioni post-elettorali, nonché di governi instabili, deboli e potenzialmente paralizzati. Da qui, il boom dei rendimenti sovrani nella periferia dell’Eurozona, con i Bonos decennali all’1,70% (da 1,485% dell’8 settembre scorso) e i BTp sulla medesima scadenza al 2,21% (da 1,97% del 7 settembre scorso). In salita a 176 punti base lo spread BTp-Bund a 10 anni, che segna +10 bp in due settimane. Il dollaro ai massimi da 6 settimane manda così l’oro ai minimi da un mese e mezzo, nei pressi di 1.275 dollari l’oncia.

Il taglio delle tasse di Trump

Infine, gira voce a Washington che la Casa Bianca potrebbe varare presto la “repatriation tax”, consentendo ai capitali detenuti all’estero delle società americane di rientrare pagando un’aliquota di appena il 10% contro il 35% sinora previsto. La misura verrebbe annunciata a pochi giorni di distanza dallo svelamento della riforma fiscale dell’amministrazione Trump, impostata su un corposo taglio alle tasse per famiglie e imprese. Le società a stelle e strisce detengono liquidità all’estero stimata in 2.600 miliardi di dollari, comprese quelle finanziarie. Se anche solo una parte di questa rientrasse, approfittando dell’agevolazione fiscale, molti capitali verrebbero probabilmente riconvertiti in dollari, facendone apprezzare il tasso di cambio contro le altre valute, euro compreso, nel caso in cui tale flusso di denaro partisse dall’Eurozona, magari da Dublino, dove hanno sede fiscale numerose multinazionali USA.

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