Tre svalutazioni in meno di un anno non sono bastate. Anzi, hanno accelerato la fuga dei capitali sull’attesa di ulteriori svalutazioni. L’Egitto vive da mesi una crisi del cambio conclamata. La lira locale ha già perso il 50% contro il dollaro nell’ultimo anno. Stando ai futures, da qui al prossimo anno perderebbe un altro 18,5% e si porterebbe a un cambio di 38. Dopo anni di apparente stabilità macro, l’economia nordafricana da oltre 400 miliardi di dollari torna a scricchiolare.

E pensare che solo a dicembre Il Cairo raggiungeva un accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per ottenere nuovi prestiti. Da allora, sono emersi dubbi circa la capacità e volontà del governo di procedere con le privatizzazioni. Queste servono all’Egitto per incassare liquidità fresca e potenziare il ritmo di crescita. Allo stesso tempo, il mercato è spaventato dalla promessa strappata dall’FMI di rendere più flessibile il tasso di cambio.

Fino a quando la lira non avrà raggiunto il minimo, difficilmente gli investitori stranieri torneranno a portare i capitali nel paese. Anzi, sono gli stessi egiziani che stanno convertendo quote crescenti dei loro risparmi in dollari e altre valute forti. La sfiducia è alla base della crisi del cambio. Colpa della guerra tra Russia e Ucraina, certo. Le materie prime costano di più, a partire dalle derrate alimentari. Questo è un problema per un’economia con un deficit commerciale cronico nell’ordine dei 30 miliardi di dollari all’anno. E il turismo non si è ripreso del tutto dopo la pandemia. E’ fonte principale di ingresso di valuta forte in Egitto.

Crisi del cambio, origini pre-belliche

Tuttavia, la crisi del cambio di questi mesi è la spia di una sfiducia che va avanti da molti anni. Con la caduta del regime di Hosni Mubarak nel 2011, Il Cairo fu teatro di forti tensioni politiche culminate con l’elezione prima del presidente islamista Mohamed Morsi e la sua cacciata a furor di popolo pochi mesi dopo.

Il turismo iniziò a contrarsi e con le riforme di fine 2016, anziché tendere a un minore indebitamento estero, il governo del presidente Abdel Fattah Al Sisi vi ha fatto un maggiore affidamento per finanziare opere pubbliche faraoniche.

Tra l’altro, proprio nel 2016 la banca centrale svalutò la lira del 55% in un solo colpo, stabilizzandola fino ad inizio 2022. In pochi anni, il paese ottenne sui mercati internazionali 130 miliardi. E solo tra nuova capitale amministrativa, espansione del Canale di Suez e una nuova linea ferroviaria elettrica di lusso ballano quasi 100 miliardi di dollari.

Egitto a rischio default

L’Egitto deve prendere in prestito tali denari e deve farlo all’estero, date le scarne disponibilità dei capitali domestici. Ne consegue che per l’FMI esiste un deficit esterno di 17 miliardi di dollari. Gli investitori prendono nota e corrono a ripararsi contro il rischio default. I CDS a 5 anni costano ormai poco meno di 1.200 punti base o 12% del capitale assicurato. Gli spread dei bond emessi in dollari risultano superiori ai 1.000 punti base o 10% rispetto ai T-bond americani. Il mercato sovrano egiziano, dunque, si trova in una condizione di stress.

L’unico aspetto positivo di questa crisi del cambio in corso è che l’Occidente dovrebbe continuare a sostenere il governo di Al Sisi. L’Egitto è fondamentale per gli equilibri geopolitici in Medio Oriente e il suo collocamento nella sfera d’influenza americana gli consente di accedere più agevolmente ai prestiti dell’FMI. Ma senza privatizzazioni significative e riforme macro per liberalizzare l’economia, il paese non andrà da nessuna parte. Il risanamento dei conti pubblici resta essenziale per prevenire l’ulteriore collasso della lira. Nel 2022, il deficit è salito al 6,8% del PIL e il debito si è attestato sopra l’87%.

A fronte dei 155 miliardi di dollari di debito estero, 27,4 miliardi nel settembre scorso scadevano entro 12 mesi. Il tutto a fronte di riserve valutarie per 34,35 miliardi a febbraio.

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