Alla fine di dicembre del 2022 il debito pubblico italiano ammontava a 2.762,5 miliardi di euro. In rapporto al PIL, dovrebbe essersi attestato al 145%. Di questo enorme stock, la Banca d’Italia ne detiene circa il 26% dopo gli acquisti degli anni passati a seguito dei programmi monetari noti come “Quantitative Easing” e PEPP. Dal taglio dei reinvestimenti della Banca Centrale Europea a partire da oggi, questo dato è destinato a scendere anche in valore assoluto, oltre che in percentuale. Un altro 38% è in mano a banche, assicurazioni e fondi in Italia.

Segue il 9% acquistato dalle famiglie, mentre solamente il 27% è in mano agli investitori stranieri. Questa percentuale superava il 50% nel 2010. Ad essere onesti, la quota detenuta dai non residenti è così bassa da far risultare poco comprensibili le polemiche di chi addita proprio la finanza internazionale quale causa di certa speculazione ai danni dei BTp.

Eppure, da qualche tempo tira aria di nazionalizzazione per il debito pubblico italiano. Tutti gli ultimi governi che si sono succeduti, si sono mostrati intenzionati a riportare in patria una maggiore quota di stock per sottrarre il Bel Paese ai “ricatti” della finanza straniera con il famoso spread. L’idea alla base di larga parte dei politici è che la dipendenza dai mercati accresce il rischio di volatilità dei rendimenti e, quindi, espone la finanza dello stato alle montagne russe degli umori degli investitori. Tra BTp Italia sin dal 2012, BTp Futura tra il 2020 e il 2021 e il prossimo BTp “patriottico” di cui si vocifera in questi mesi, gli strumenti ideati per allettare il risparmio privato non sono mancati.

Vantaggi debito pubblico in mani italiane

Abbiamo individuato tre ragioni per le quali un debito pubblico quasi esclusivamente in mano a creditori italiani avrebbe conseguenze positive. In primis, la percezione del rischio. Nessuno più di chi in Italia vive, conosce quale sia l’effettivo stato delle cose.

I titoli dei giornali, l’incomprensibilità della politica italiana e certa tendenza alla speculazione all’estero fanno sì a volte che il mercato nutra verso i nostri conti pubblici timori a dir poco esagerati. È da trenta anni che siamo visti sempre sull’orlo di un collasso finanziario, mentre per fortuna le cassandre sono state sempre smentite.

Un debito pubblico per ipotesi al 100% in mani italiane farebbe restare nel circuito dell’economia nazionale tutti gli interessi pagati dallo stato. Vi sarebbe una redistribuzione delle risorse dai contribuenti agli investitori. Gli ormai quattro punti di PIL di spesa per interessi alimenterebbero il reddito nazionale. Infine, molti dei risparmi lasciati infruttiferi sui conti bancari finalmente sarebbero impiegati a beneficio delle famiglie.

Svantaggi nazionalizzazione

Fin qui, i possibili pro. Ma abbiamo scorto anche cinque principali rischi. Per attirare le famiglie, così come la finanza domestica, ad investire maggiormente nei titoli del debito pubblico, lo stato dovrebbe alzare i rendimenti. La spesa per interessi salirebbe e con essa la tassazione per coprirla. In alternativa, dovremmo tagliare alcune voci del bilancio statale. Del resto, se negli anni Novanta abbiamo aperto le porte alla finanza internazionale è stato per allargare la platea degli investitori e spuntare interessi più bassi.

Altro aspetto positivo dell’internazionalizzazione del debito pubblico risiede nell’allungamento della sua durata media. Era di 2,5 anni negli anni Ottanta, mentre oggi arriva a 7,7 anni. E un debito mediamente più lungo espone a minori rischi di breve termine sui mercati, oltre a migliorare la percezione del rischio tra i creditori. E cosa dire del rischio di incentivare il lassismo fiscale? Se i governi a Roma non dovessero più temere i creditori, essendo bassa o nulla la percentuale di debito pubblico in mano a banche, assicurazioni e fondi esteri, potrebbero peggiorare la gestione dei conti pubblici.

Spenderebbero in eccesso e continuerebbero ad ammassare debiti su debiti. Il tracollo sarebbe solo questione di tempo.

Rischio ristrutturazione più alto

A rischiare sarebbero gli stessi creditori domestici. La diversificazione dei portafogli è un criterio basilare di qualsiasi strategia d’investimento. Investire quote elevate nel debito pubblico della propria nazione accresce le esposizioni ai bilanci dello stato e al contempo riduce le opportunità di guadagno derivanti dagli investimenti alternativi all’estero o in patria stessa.

Infine, un debito pubblico totalmente in mani italiane potrebbe ingenerare nei governi la convinzione che una ristrutturazione sarebbe meno dolorosa. In scenari avversi, i politici sarebbero tentati di imporre perdite ai creditori, sottostimando i costi dell’operazione. In conclusione, ridurre la dipendenza dalla finanza speculativa non sarebbe una cattiva idea, a patto che alla base vi sia la volontà di mantenere intatta l’attenzione per i conti pubblici. Se fosse solo una trovata per spendere di più senza dare conto ai mercati, compiremmo il primo passo verso il fallimento. E arriverebbe per davvero.

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