Questa settimana, lo yen ha toccato nuovi minimi contro il dollaro dal 1998. E questo dopo che a settembre la Banca del Giappone era dovuta intervenire per la prima volta proprio da 24 anni sul mercato forex per difendere il cambio. Allo scopo, aveva speso oltre 19 miliardi di dollari, qualcosa come 2.800 miliardi di yen. Finora, il cambio debole non era stato un problema per Tokyo. Anzi, la banca centrale lo vedeva di buon occhio per cercare di ravvivare l’inflazione. L’economia nipponica vive da circa 30 anni in stagnazione e da 25 anni in una sorta di deflazione strisciante.

Per uscire da questa condizione, il governo da decenni usa una politica fiscale ultra-espansiva, tant’è che il rapporto debito/PIL è schizzato fino al 260%. Allo stesso tempo, ancora oggi tiene i tassi negativi. Tra l’altro, la Banca del Giappone impedisce ai rendimenti sovrani di salire, ponendosi un target dello 0,25% per la scadenza a 10 anni.

Gigantesco debito pubblico del Giappone

Ora che tutte le altre grandi banche centrali hanno alzato e continuano ad alzare i tassi d’interesse, i capitali stanno fuggendo dal Giappone per dirigersi principalmente negli USA. Ciò indebolisce lo yen e rischia di destabilizzare i prezzi interni. Un cambio più debole, infatti, aumenta il costo dei beni importati. L’inflazione è salita al 3% ad agosto, molto meno che nel resto delle principali economie mondiali. Tuttavia, il trend minaccia la stabilità finanziaria del Giappone.

Finché i tassi d’interesse potevano essere tenuti bassissimi e persino sottozero, un debito pubblico al 260% del PIL non poneva alcun problema di sorta. Di fatto, oltre la metà risulta in pancia alla stessa Banca del Giappone, che continua ad acquistarlo in ossequio alla sua politica monetaria ultra-espansiva. Con l’inflazione già sopra il target del 2%, viene meno tale necessità. Anzi, il governatore Haruhiko Kuroda avrebbe già dovuto implementare un piano per alzare i tassi.

Ma un costo del denaro più alto creerebbe sconquassi fiscali in un paese con un deficit all’8% del PIL nel 2021, pur in calo dal 12,6% del 2020, l’anno della pandemia. Vero è che sotto il premier Shinzo Abe, ucciso di recente durante un comizio da un folle, la politica fiscale era diventata meno lassista. Prima del Covid, il governo era riuscito a tagliare il deficit al 3%. Era ancora al 7,6% nel 2012. Resta il fatto che esiste una mole gigantesca di debito sovrano da rifinanziare. La sua durata media supera i 9 anni, per cui ogni anno il Giappone deve fronteggiare scadenze per il 25-30% del PIL.

Difesa yen sterile, rischio crac

La Banca del Giappone ha dinnanzi a sé una scelta difficile: alzare i tassi per combattere l’inflazione, ma minacciando la sostenibilità fiscale del Sol Levante; lasciare i tassi invariati per difendere il debito dal rischio crac, ma mandando alle stelle l’inflazione. L’opzione di difendere lo yen è “short sighted”, nel senso che serve solo ad acquistare tempo. Pochissimo, a dire il vero. L’intervento di settembre è costato tanto ed è bastato per poche sedute. Dopodiché, i fondamentali si sono ripreso tutto con gli interessi. Di questo passo, Kuroda dovrebbe intaccare tutte le riserve valutarie per cercare affannosamente di difendere il cambio. E non ci riuscirebbe ugualmente.

Tokyo sta correndo per la prima volta il serio rischio di trasformarsi in una grande Italia sul piano del rischio sovrano. Tassi più alti costringerebbero il governo a politiche di austerità fiscale (taglio della spesa pubblica e aumento delle entrate) per pagare gli interessi. Né si può immaginare che il paese venga lasciato in balia dell’inflazione. La buona notizia per il paese è che la sua economia risulta possedere una fortissima posizione creditizia netta verso l’estero, cioè vanta asset detenuti nel mondo per un valore di circa il 66% del suo PIL maggiore degli asset che il resto del mondo detiene in Giappone.

Grazie a questa posizione favorevole, un rialzo dei tassi riporterebbe a casa moltissimi capitali di banche e società nipponiche ad oggi investiti all’estero. Ciò rafforzerebbe lo yen, come avvenne nel 2011 all’indomani del disastro nucleare di Fukushima, quando le compagnie di assicurazione rimpatriarono i capitali per pagare gli indennizzi. A sua volta, un cambio più forte placherebbe l’inflazione. Peraltro, c’è da scommettere che buona parte dei capitali rimpatriati sarebbe investita nei titoli di stato. In ogni caso, aumenterebbe l’offerta interna di denaro, riducendo i rendimenti sovrani. Solo così il Giappone sfuggirebbe a una crisi del debito. L’inazione sui tassi d’interesse, però, non è più un’opzione.

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