E così è finito anche il governo Draghi dopo appena diciassette mesi di lavoro. L’Italia ha accolto la notizia con finto ed ipocrita stupore, come se la durata di un qualsiasi esecutivo nel nostro Paese fosse mediamente più lunga o se la stessa fine non abbiano fatto tutti i precedenti governi tecnici. In meno di trenta anni, ne abbiamo collezionati ben quattro: Carlo Azeglio Ciampi (1993-’94), Lamberto Dini (1995-’96), Mario Monti (2011-’13) e Mario Draghi (2021-2022). Il clima di vedovanza che regna in questi giorni ha oltrepassato la soglia del ridicolo.

Draghi è bravo, competente, autorevole nel mondo, ma sarebbe il caso che tornassimo ai fondamentali di una democrazia.

Quando è arrivato a Palazzo Chigi, caldeggiato dalla quasi totalità del sistema politico, Draghi è stato descritto dai media, dalle categorie produttive e dai partiti quale ultimo “salvatore della Patria” nell’ordine di tempo. Colui che ci avrebbe riportati a certi livelli nel mondo, facendoci uscire da una crisi praticamente infinita. Non è successo, né sarebbe potuto accadere in così breve tempo. Chi afferma il contrario, fa propaganda. L’Italia è stata trattata in questo anno e mezzo con la stessa sufficienza degli ultimi decenni. Prima dell’invasione russa in Ucraina, il nostro governo non fu neppure invitato ai consessi atlantici per discutere della crisi geopolitica. Il “formato di Normandia” ci escluse di fatto da qualsiasi coinvolgimento diretto. Nulla di nuovo.

Tecnocrazia al posto della politica

Ma per capire la fine del governo Draghi, bisogna tornare indietro al 1992. L’anno nero dell’Italia, tra stragi di mafia, attacco alla lira, crisi economica e tangentopoli. In quei mesi, il sistema implose. Media e classe dirigente decisero di consegnarsi all’anti-politica per abbattere il sistema clientelare e certamente consociativo, che aveva fatto esplodere il debito pubblico e collassare l’economia nazionale. E come sempre accade quando s’imbocca una scorciatoia, i problemi non solo non furono risolti, ma nei decenni si sono semplicemente sedimentati e acuiti.

L’anti-politica portò alla guida del governo l’allora governatore della Banca d’Italia. Bisognava “salvare l’Italia”, un’espressione quasi biblica con cui per altre tre volte nei successivi 28 anni si è cercato di sospendere l’ordinaria dialettica democratica per rimpiazzarla con la tecnocrazia. L’assunto di base è stato sempre lo stesso: i tecnici, in quanto estranei ai partiti, possono realizzare le riforme più in fretta e meglio della politica.

Questa impostazione è sbagliata e pericolosissima per infiniti motivi. Sbagliata, perché dimentica che la nostra resta una democrazia parlamentare e gli atti di qualsiasi governo devono essere approvati da Camera e Senato, cioè pur sempre dai partiti. E di fatti, nessun governo tecnico finora è riuscito a varare più di una qualche riforma significativa nel corso del loro operato: il patto di moderazione salariale sotto Ciampi, le pensioni sotto Dini e Monti, l’implementazione del PNRR sotto Draghi.

Perché è fallito anche il governo Draghi

Pericolosa, perché sottintende che la democrazia sia un meccanismo in sé disfunzionale. Se così, tanto vale abolirla e sostituirla con una élite di accademici con tanto di curriculum. In realtà, la tecnocrazia fallisce nel momento in cui ritiene che il dibattito debba essere strozzato da automatismi legislativi, come se il contrasto tra interessi fosse un male da estirpare e non il sale di qualsiasi democrazia, oltre che economia sana. La politica non ha fallito per essersi fatta interprete di interessi corporativi e/o diffusi, quanto per non essere stata capace di scegliere tra questi, finendo per accontentare ogni appetito, dilatando la spesa pubblica e il debito.

I governi tecnici falliscono perché alla base vi è una premessa falsa: sono invocati come salvatori della Patria, mentre sono semplicemente chiamati a scegliere quali interessi perseguire a discapito di altri.

I cittadini-elettori lo comprendono in fretta e reagiscono di conseguenza, spingendo i partiti a prendere posizione in un senso o nell’altro. Tuttavia, questa sospensione della democrazia, ormai quasi a intervalli regolari, finisce per peggiorare drasticamente la già scarsa qualità dell’offerta politica.

Perché mai i partiti dovrebbero scegliere tra interessi contrastanti, quando potranno calciare il barattolo per poi farsi temporaneamente rimpiazzare da un tecnico? Ci penserà quest’ultimo a rimediare alle mancate scelte dei predecessori. Ma così facendo, la democrazia si svuota di significato, perché non è più contesa tra interessi, bensì tra due o più poli senza di fatto più alcuna identità reale, caratterizzati da personalismi sempre più esasperati.

Un declino che va avanti da tangentopoli

In questi termini, i tecnici non solo non salvano la Patria, ma la picconano dalle fondamenta. Il loop in cui siamo precipitati può essere spezzato solo tornando indietro a quell’infausto 1992, quando avevamo pensato che la soluzione contro la cattiva politica fosse l’anti-politica e non la buona politica. Ci siamo creati, con la benedizione delle altissime istituzioni, l’illusione che non ci serva un governo, ma un gabinetto dei “migliori”, individuati per curriculum, come se la loro scelta fosse realmente neutrale e inattaccabile o come se di per sé fosse scontato che un ottimo professore universitario sia anche un ottimo ministro o premier.

L’eccezione italiana la dice lunga sullo stato di declino, anzitutto, culturale che stiamo vivendo da anni. E riguarda le alte sfere dell’economia, delle istituzioni e della politica, così come l’uomo comune. Abbiamo rimpiazzato la politica, buona o cattiva che fosse, con il feticcio della tecnocrazia. Siamo più poveri di un trentennio fa e con istituzioni che hanno praticamente smesso di funzionare, bombardate dal clima incessante dell’anti-politica.

[email protected]