Russia e Arabia Saudita si sono risentite al telefono per la seconda volta da quando è iniziata la guerra in Ucraina. E’ accaduto lo scorso fine settimana a seguito di una chiamata tra il presidente Vladimir Putin e il principe Mohammed bin Salman (MbS). Fonti del Cremlino hanno definito “positivo” il giudizio che i due leader avrebbero dato alla cooperazione tra i rispettivi paesi con riferimento all’OPEC+, l’organizzazione che riunisce tra i principali esportatori di petrolio nel mondo. E l’Agenzia stampa saudita ha reso noto che Riad avrebbe sostenuto ogni sforzo per giungere a una “soluzione politica” del conflitto tra Russia e Ucraina.

Uscendo fuori dal linguaggio burocratese, Putin e MbS sono più alleati che mai. Il petrolio sopra 100 dollari non dispiace a nessuno dei due. La Russia sta potendo galleggiare, malgrado le sanzioni occidentali, proprio per effetto delle quotazioni energetiche alle stelle. L’Arabia Saudita sta registrando il primo avanzo di bilancio dal 2013, atteso per quest’anno al 6,5% del PIL e l’anno prossimo al 3,5%. Nel frattempo, sempre grazie al caro petrolio la crescita dell’economia domestica raddoppia rispetto alle previsioni.

L’amicizia di scopo tra russi e sauditi

Russi e sauditi estraggono giornalmente il 20% del petrolio mondiale. Insieme, sono la più grande forza sul mercato. Dopo il tonfo delle quotazioni internazionali nel 2014, le due potenze hanno avviato una collaborazione inedita e, in barba agli USA, hanno iniziato a concordare le mosse sui livelli di produzione. Nasce così informalmente l’OPEC+, ossia l’unione tra OPEC e una decina di stati esterni, tra cui la Russia. Di fatto, un cartello a guida saudita con l’appoggio russo. E così, quando è arrivata la pandemia decidono di tagliare drasticamente le estrazioni per risollevare i prezzi del petrolio. Nell’estate scorsa, la volontà di tornare ad accrescere l’offerta di 400.000 barili ogni mese.

Tuttavia, con un petrolio sopra 100 dollari ci sarebbero tutte le condizioni per accelerare tale piano. Invece, a marzo le estrazioni dei membri OPEC+ sono state di 1,45 milioni di barili al giorno in meno rispetto all’obiettivo dichiarato; in crescita di appena 57.000 barili al giorno rispetto al mese di febbraio per i soli membri OPEC. Per aprile, quelle russe giornaliere sono attese in calo di 1,5 milioni di barili dall’Agenzia internazionale per l’energia. L’Iraq è salito a 4,34 milioni di barili, appena sotto la sua quota di 4,37 milioni, e ha segnalato di non volere aumentare le estrazioni, definendo “un successo” la politica praticata dal cartello in questi mesi.

Petrolio sopra 100 dollari ed estrazioni ferme

Russi e sauditi stanno avvantaggiandosi del trend di mercato. Ufficialmente, le due riunioni OPEC successive all’invasione dell’Ucraina hanno mantenuto la policy invariata sull’assunto che i fondamentali non stiamo migliorando. Anzi, le previsioni sulla domanda per quest’anno si sono indebolite di quasi mezzo milione di barili al giorno. La verità è che Riad e Mosca non riescono a credere ai loro occhi che l’Occidente stia cercando di aggravare la crisi energetica, con un petrolio già salito sopra 100 dollari. Non stanno temendo il ritorno alle trivellazioni negli USA, date le restrizioni ambientali volute dall’amministrazione Biden, pur se adesso le si vorrebbe allentare.

In generale, non sta giovando all’Occidente la sua ostentata svolta green. Puntare esplicitamente e in pompa magna a rimpiazzare i combustibili fossili con fonti energetiche pulite implica per i paesi dell’OPEC+ la presa d’atto che questa potrebbe essere l’ultima fase storica caratterizzata da prezzi del petrolio elevati. Meglio approfittarne prima che la manna dal cielo smetta di cadere. In altri tempi, sarebbe forse bastata una telefonata della Casa Bianca a Riad per convincere il regno a calmierare le quotazioni.

I sauditi avrebbero aumentato la produzione e tagliato i prezzi, fungendo da segnale immediato al resto del mercato. Ma MbS non risponde alle chiamate del presidente Joe Biden, reo di avere insultato il suo paese per l’affare Khashoggi.

USA tra accordo nucleare con Iran ed elezioni di “mid term”

Infine, il capitolo Iran. Un nuovo accordo sul nucleare tra Teheran e Washington non è più così scontato. Esso consentirebbe alla Repubblica Islamica di vendere petrolio all’estero con il cessato embargo americano. Il prezzo del petrolio scenderebbe e questo sarebbe uno degli scopi degli USA per queste trattative in corso da mesi. Tuttavia, le esportazioni iraniane sono già salite sopra 1 milione di barili al giorno e con un petrolio sopra 100 dollari non c’è tutta questa fretta per concedere troppo al nemico. Le entrate per gli ayatollah aumentano ugualmente. Per contro, i sauditi non prenderebbero bene un accordo, combattendo da anni con l’Iran una proxy war nello Yemen. Probabile che reagirebbero restringendo ulteriormente la produzione domestica, così da neutralizzare per le economie importatrici (Occidente, in primis) i benefici derivanti dalla maggiore offerta di Teheran.

Ed ecco perché finora l’America sta provando ad arrangiarsi, riducendo le scorte di greggio strategiche per aumentare l’offerta mondiale nei prossimi mesi. Non una buona idea secondo molti esperti, dato che ciò presuppone un loro impinguamento futuro per evitare rischi per la sicurezza e l’economia nazionale. D’altra parte, dopo le elezioni di medio termine di novembre il quadro può cambiare. Stando ai sondaggi, i democratici al governo prenderebbero una scoppola. I repubblicani maggioranza al Congresso allenterebbero le restrizioni anti-trivelle e spingerebbero il comparto oil & gas a produrre di più. Forse anche in previsione di ciò i sauditi non stanno alzando la produzione. Vogliono godersi la pacchia fino all’ultimo istante possibile. E gli amici russi ringraziano.

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