Più che una dichiarazione, una bomba. E’ quella sganciata dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria, che ieri alla Commissione Finanze del Senato ha raccontato che il “bail-in”, la legislazione che dal 2016 regola i salvataggi bancari, sarebbe stato accettato dal suo predecessore Fabrizio Saccomanni solo per il ricatto che gli fu posto dal collega tedesco Wolfgang Schaeuble, il quale avrebbe paventato il rischio che si diffondesse la notizia che l’Italia non avrebbe avallato la nuova normativa per paura sulle condizioni di salute delle sue banche.

Dunque, tutti sarebbero stati contrari, tranne la Germania e pochi altri, ma alla fine dovettero accettare il bail-in per paura che i rispettivi sistemi bancari fossero percepiti deboli o, addirittura, a rischio imminente di sconquassi.

Crisi banche italiane, rischio bail-in sarebbe solo rinviato con bad bank europea

La “Bank recovery and resolution directive” (Direttiva 2014/59/UE) fu approvata dall’Europarlamento e dal Consiglio europeo nel maggio del 2014 e in Italia fu recepita con legge dello stato il 16 novembre del 2015, una settimana prima che venissero salvate quattro banche minori (Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti) con tutte le polemiche che ne seguirono sui criteri adottati in quell’operazione. La disciplina da allora consente agli stati di intervenire a sostegno di una banca in crisi solamente dopo che questa abbia provveduto a coprire almeno l’8% delle passività attraverso, nell’ordine: le azioni, le obbligazioni subordinate, le obbligazioni senior e, infine, i conti correnti e deposito sopra i 100.000 euro e solo relativamente alla quota eccedente tale soglia.

Il ragionamento di fondo che venne fatto valere in sede europea 5 anni fa fu il seguente: una banca ha bisogno di denari pubblici per evitare il fallimento? Che prima copra le perdite coinvolgendo gli “stakeholder” privati, così da incidere sui contribuenti in misura minore e in casi estremi. In sé, la disciplina introdurrebbe un principio di responsabilità sia della banca che di chi vi investe, evitando che tutte le magagne dei bilanci della prima ricadano immediatamente sulle spalle dei contribuenti, come avvenne dal 2008 con la scoppio della crisi finanziaria, quando la stessa Germania dovette salvare le banche tedesche per qualcosa come 250 miliardi di euro pubblici tra aiuti e garanzie concesse.

L’adozione passiva del bail-in in Italia

Tuttavia, il bail-in ha avuto già serie conseguenze negative. I risparmiatori si sono ritrovati all’improvviso a non godere più di quella garanzia implicita, che fino al 2015 sostanzialmente riguardava gli investimenti effettuati nelle banche in forma di azioni, obbligazioni e di semplice apertura di un conto. Peraltro, strumenti come le obbligazioni (subordinate e senior) hanno assunto da un giorno all’altro una natura più rischiosa di quella esibita all’atto della loro emissione. Chi comprò questi titoli prima che la UE approvasse la direttiva si ritrovava in un quadro giuridico differente e più garante dell’investimento. Non a caso, l’Italia chiese solo dal 2016, a legislazione recepita ed entrata in vigore, che almeno i titoli emessi fino alla data di approvazione della Brrd fossero esclusi dall’applicazione della disciplina. Bruxelles ha risposto picche.

Il bail-in venne parzialmente applicato in Italia nel novembre 2015, prima ancora che fosse legalmente valido, coinvolgendo nelle perdite delle quattro banche salvate anche gli obbligazionisti. Gli effetti furono disastrosi: le banche italiane crollarono in borsa, gli investitori fuggirono dai loro bond e la solidità del nostro sistema bancario è stata e continua ad essere messa in dubbio sui mercati finanziari. Fu un errore avere approvato la direttiva? L’allora premier Enrico Letta nel 2013 twittava gaudente al varo della nuova disciplina, sostenendo che essa servisse per tutelare i risparmiatori ed evitare nuove crisi bancarie e che fosse un nuovo passo verso una UE più unita.

Col senno di poi avrebbe dovuto evitare di scrivere una simile corbelleria.

Inutile, però, prendersela solo con il governo di allora, anche perché in Parlamento e tra le categorie sociali vi fu un consenso amplissimo, anzi quasi non si udirono reali voci critiche al provvedimento. Fu tutto un coro di fiducia verso la nuova filosofia che avrebbe di lì in poi guidato le scelte in tema di rapporto tra stati e banche in Europa. I dubbi sorsero solamente dopo che i buoi erano scappati dalla stalla e si cercò di chiudere la stalla. Fu troppo tardi. La domanda che sorge, anche alla luce delle dichiarazioni di Tria, è se l’approvazione passiva del “bail-in” da parte dell’Italia fu dovuta a un ricatto e se questo sia stato esplicito o implicito.

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Cosa accadde con il bail-in?

Premessa: dal governo Berlusconi ad oggi, mai un premier o un ministro ha messo in dubbio la solidità del sistema bancario italiano. Naturale, in un certo senso, che sia così, ma il Cavaliere era solito compiacersi di quanto “virtuose” fossero state le banche italiane negli anni precedenti, avendo prestato con più oculatezza delle concorrenti e non investendo in titoli derivati, all’origine dei crac. Lo stesso Leitmotiv fu ripetuto alla nausea negli anni seguenti da tutti i successori, a conferma che un po’ ci facevano, un po’ ci erano. A Roma, per dirla con franchezza, davvero credettero probabilmente che le nostre banche fossero solide e in pochi, se non nessuno, vide la montagna di crediti deteriorati che si alzava di mese in mese. Il bail-in non spaventò forse, proprio in considerazione che eravamo stati l’unica grande economia mondiale a non avere avuto bisogno di salvare una banca nel 2008 e a seguire.

E, però, le sofferenze crescenti erano note alla Vigilanza di Bankitalia, le cui perplessità non vennero ascoltate nemmeno dal suo ex direttore generale Saccomanni, nel frattempo divenuto ministro dell’Economia del governo Letta.

Come mai? Immaginiamo che un certo ricatto potrebbe esservi stato, ma non così esplicito come crederemmo. Schaeuble potrebbe avere convinto il collega a firmare, sussurrandogli all’orecchio parole del tipo: “Fabrizio, t’immagini cosa direbbero i giornali se non accetti il bail-in? Inizieranno a dubitare sulla solidità delle banche italiane, per cui sarebbe meglio che firmassi anche tu”. Sarebbe un ricatto o una “moral suasion”? Il confine appare labile, sempre che le cose siano andate come le ha raccontate ieri Tria.

Se non fosse vero, sarebbe molto verosimile. Ahi noi, l’Unione Europea a trazione franco-tedesca funziona così: il direttorio formato solo da Berlino e Parigi si accorda su un ordine del giorno, magari dopo avere litigato al suo interno veementemente per giorni, settimane o mesi. A quel punto, pretende che l’intesa si traduca in un vincolo per tutti gli altri partner dell’Eurozona o dell’intera UE. Se qualcuno mostrasse dubbi o aperta contrarietà, lo si bastona. I commissari vengono spediti come sicari a minacciare a voce alta il malcapitato, che avrà due scelte: proseguire la sua lotta o accettare le conseguenze della sua “insubordinazione”. E queste ultime sapete in cosa consistono? Nella sfiducia dei mercati. Chi non accetta le regole propinate dall’asse franco-tedesco, infatti, viene percepito politicamente debole, isolato e a rischio persino di permanenza nell’euro o nel mercato unico. Da qui, il bombardamento che da mediatico diventa finanziario.

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Il ruolo di subordinazione cronico dell’Italia

E’ accaduto nei mesi scorsi con la ridicola trattativa sullo 0,4% in più o in meno sul deficit dell’Italia, intavolata malamente dal governo Conte con la Commissione, era accaduto già nel 2011 quando l’Italia osò alzare la voce sull’assenza di meccanismi di sostegno automatico agli stati in crisi, sentendosi replicare dalle istituzioni comunitarie con l’invio di una lettera della BCE contenente decine e decine di riforme da varare subito, nonché con le risatine in conferenza stampa di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel ai danni dell’allora nostro premier Silvio Berlusconi, una pietra tombale sulla sua residua credibilità internazionale. E nel frattempo, sempre Francia e Germania chiesero e ottennero dall’Eba, l’authority bancaria europea guidata niente di meno che dall’italiano Andrea Enria, che i titoli di stato in pancia alle banche fossero iscritti a bilancio al loro valore di mercato (“mark-to-market”) del 30 settembre 2011, alimentando la furia dello spread.

Il problema di queste dichiarazioni gravissime di Tria sta nell’assenza di una presa d’atto da parte di istituzioni e categorie di rappresentanza in Italia. La fede incrollabile nell’Europa supera ogni prova evidente del clima di emarginazione a cui vanno incontro quanti si oppongano alle decisioni dell’asse franco-tedesco non per ideologia, bensì per la tutela dell’interesse nazionale. Non abbiamo quel piano B, che dovrebbe consentirci di alzare la voce per fare valere le nostre ragioni in sede europea e al contempo di non soccombere sui mercati. Nessuno ai piani alti prende mai in considerazione che la debolezza ormai strutturale in cui è precipitata l’Italia come emittente sovrano riguardi, anzitutto, il percepito suo ruolo marginale, se non nullo, in Europa, tale da renderla una nazione alla mercé delle decisioni e degli interessi altrui.

E anche adeguandoci passivamente ai diktat franco-tedeschi, come pure abbiamo sempre sinora fatto, i risultati non arrivano, semplicemente perché quelle imposizioni non hanno niente a che spartire con il nostro interesse nazionale. Il bail-in è solo uno dei tanti esempi, peraltro arrivato dopo il Fiscal Compact, altra imposizione tedesca all’Italia, in cambio del varo di quel “quantitative easing” della BCE, che oltre ad essere arrivato tardi, ha beneficiato soprattutto Berlino, che ancora oggi emette debito pubblico a rendimenti negativi fino alle scadenze medio-lunghe, quando l’Italia paga i suoi BTp a 10 anni circa 20 volte in più degli omologhi Bund. Se questa è l’Europa, dovremmo iniziare ad adocchiare a una via di fuga quanto meno rovinosa possibile. Difficilissimo che ciò avvenga. Non abbiamo una classe dirigente capace di possedere una visione del futuro, né di mostrarsi sufficientemente orgogliosa da ipotizzare una autonomia di pensiero rispetto all’asse franco-tedesco. Di dichiarazioni (postume) alla Tria ne sentiremo ancora, ma resteranno frasi inutili per riempire le cronache dei giornali. Chiedete allo stesso Tria se immagina di staccarsi sul serio dal duo che comanda in Europa!

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