Il 2022 è stato un anno straordinariamente positivo per l’Arabia Saudita, i cui conti pubblici sono tornati in attivo per la prima volta dal 2013, sostenuti da entrate petrolifere quasi record di 326 miliardi di dollari. E per la prima volta nella sua storia, il PIL ha superato il traguardo dei 1.000 miliardi di dollari. Il regno fa parte a pieno titolo del G20, l’assise dei venti paesi più ricchi al mondo. E l’anno scorso il principe ereditario Mohammed Bin Salman (MBS) ha avviato un processo di riposizionamento geopolitico, che sta concretizzandosi in queste settimane attraverso atti clamorosi e impensabili fino a pochi mesi fa.

MBS vicino più a Xi che a Biden

I rappresentanti sauditi hanno incontrato gli omologhi iraniani a Pechino per dare inizio a un avvicinamento diplomatico sotto la sorveglianza della Cina di Xi Jinping. I due stati arci-nemici del mondo mussulmano sono tornati a parlarsi dopo decenni di guerre per procura e minacce militari dirette. Pochi giorni fa, Riad ha annunciato che sarà partner dello Shanghai Cooperation Organization (SCO), un’istituzione multilaterale voluta dalla Cina a tutela della sicurezza in Asia. Ne farà parte anche l’Iran, a conferma dello “scongelamento” delle relazioni bilaterali.

E domenica scorsa, i sauditi hanno avallato il taglio dell’offerta di petrolio dell’OPEC da 1 milione di barili al giorno a partire da maggio. Leader di fatto del cartello, intendono così sostenere le quotazioni internazionali. L’Occidente guarda con preoccupazione a tale atto, perché favorisce un produttore di energia come la Russia e al contempo colpisce le economie di Stati Uniti ed alleati europei già fiaccate dall’alta inflazione e dalla conseguente stretta monetaria necessaria per combatterla.

Petrodollari versus sicurezza, accordo saltato

L’elenco delle ragioni che sta spingendo l’Arabia Saudita a girare le spalle all’Occidente è lungo. In primis, i rapporti con Washington sono ai minimi termini da decenni.

Il presidente americano Joe Biden aveva attaccato il regno per l’assassinio di Jamal Khashoggi, oppositore della monarchia che era solito attaccare dalle colonne del Washington Post. Prima di entrare alla Casa Bianca, era arrivato a definire il regno “uno stato paria”. Il principe MBS non l’ha presa per nulla bene. E poi c’è lo Yemen a inquietare Riad. Gli Stati Uniti, che dagli anni Settanta hanno garantito la sicurezza al territorio saudita, non sono intervenuti a suo sostegno contro gli attacchi con droni rivolti dai ribelli anti-governativi Houthi, sostenuti dall’Iran.

In altre parole, agli occhi di MBS è saltato quel patto che legava la superpotenza americana a Riad: accettare i pagamenti del petrolio solo in dollari in cambio di sicurezza. Ed è così che lo scorso anno i sauditi hanno stretto un accordo con la Cina per regolare gli scambi eventualmente anche in yuan. C’è poi una questione strategica: la Cina è la seconda economia mondiale, proiettata a diventare la prima entro pochi anni e ancora in fase di sviluppo. Essa resta energivora, contrariamente all’Occidente sempre più incline ad allentare la dipendenza dagli idrocarburi e che già da tempo cresce a ritmi lenti, avendo raggiunto la maturità economica.

Arabia Saudita vede futuro in Asia

Per l’Arabia Saudita sarà sempre più la Cina il suo cliente principale. Anzi, in generale, l’Asia. Ci sono grandi economie come India, Indonesia, Pakistan, ecc., che avranno sempre più bisogno di petrolio per produrre e svilupparsi. Gli Stati Uniti, al contrario, hanno minimizzato la loro dipendenza petrolifera dalle importazioni saudite, avendo sin dai primi anni Duemila puntato a far crescere le estrazioni nazionali grazie al “fracking”. Sono diventati, in pratica, concorrenti dei sauditi. In venti anni, sono passati da 6 a 13 milioni di barili al giorno.

L’autonomia energetica per Washington è alla portata, includendo un maggiore sfruttamento delle energie rinnovabili.

Infine, l’Occidente non è in sintonia con l’Asia sul piano culturale e politico. La liberaldemocrazia come la concepiamo noi quasi non esiste da quelle parti e anche per questo l’Arabia Saudita ritiene di avere poco a che spartire con chi parla di diritti umani, eguaglianza di genere, ecc. Il grosso rischio che stiamo correndo è che in Asia si saldi un blocco geopolitico in possesso di tutte le principali materie prime necessarie alla produzione. E che faccia leva su di esse per ricattare l’Occidente e cercare di giocare alla pari su tutti i piani di confronto. Un rischio che diventa ancora più allarmante, se consideriamo che i sauditi stiano cercando di attirare a sé anche la Turchia. A inizio marzo, hanno versato sul conto della banca centrale di Ankara 5 miliardi di dollari, liquidità indispensabile per impedire una crisi della bilancia dei pagamenti. E stiamo parlando di un membro della NATO, nonché avamposto dell’Occidente in Asia.

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